Serata in famiglia

di Franz Krauspenhaar

Mi svegliai con un gran mal di testa, decisi di uscire a prendere una boccata d’aria. Non è come in campagna o a Los Angeles l’estate scorsa, a Downtown, posto tremendo, si, ma almeno ero libero, si respirava, andavo dove mi pareva e con un bel po’ di dollari in tasca. Camminavo senza meta. Il sole sbatteva furioso sull’asfalto molle. E dire che ieri era una giornata come tutte le altre. Certo, un po’ troppo calda per i miei gusti.

Decisi di telefonare alla mia fidanzata. “Perché sei ancora in casa?” le chiesi. Mi rispose che oggi non lavorava, che aveva preso un permesso. Di lei non m’importava più niente ma non mi decidevo a lasciarla, in fondo a qualcosa di losco e fradicio mi era servita, e in svariate occasioni.

Presi per il centro e a un tratto decisi di fermarmi al Parco Sempione. Guardavo trotterellare cani smunti e spelacchiati nella ghiaia cisposa, incrociavo facce scure di donne sudamericane basse e grasse dietro a carrozzine di neonati grigi, vecchi in camicia color crema e pantaloni di frescolana marroni con la paglia calcata in testa, ragazzi a torso nudo che giocavano a basket urlando comandi ai compagni più sudati e sfiatati. Nella biblioteca mi misi a sbirciare qua e là due o tre ragazze occhialute chine sui loro testi universitari, cercai un libro di Conrad, “Cuore di tenebra”.

Con il libro sotto il braccio tornai indietro. La giornata era interminabile. La stagione della caccia era lontana.

Farò un cruciverba. Andai avanti, ero stanco, rinunciai a comprare la Settimana Enigmistica, presi la metropolitana che mi portò fino a casa.

Mia madre mi aspettava in cucina, mi chiese cosa volevo per cena, le risposi che le polpette di cui mi aveva parlato stamattina sarebbero andate benissimo, mi rispose che erano in forno, quando le avrei volute me le avrebbe scaldate, volevo magari un insalata, per contorno? Le risposi che l’insalata mi faceva venire in mente l’ospedale, brutti ricordi, avrei voluto piuttosto delle patate fritte ma mia madre disse che no, che le patate fritte non le avrebbe cucinate perché il fritto fa male, non le fa solo perché la sorellina è a dieta, alzai le spalle, non potevo farci niente, in quella casa ero soltanto un ospite più o meno gradito.

Mi chiusi in camera, accesi lo stereo, misi le cuffie per non disturbare, ascoltai i Radiohead per un buon quarto d’ora di clangore elettrico, poi un po’ di radiogiornale con notizie cattive e una sola buona, la morte violenta di un terrorista.

Mio padre rincasò verso le sette, faceva gli straordinari nella sua fabbrica di vernici antifumo, era partito trent’anni prima dal magazzino e adesso lavorava in contabilità e attendeva giorno dopo giorno la sua pensione. Cenammo senza dire una parola, io guardavo fuori dalla finestra, sarebbe bello tornare in America ad agosto, dovrei trovare un lavoro, però, fuori sfrecciavano le auto sul viale, nel tramonto umido.

Prima di andare in salotto per guardare la televisione mio padre, con i suoi occhi di gufo stanco e parlando dalla bocca a forma di bistecca troppo cotta mi chiese se avevo idea di trovare un lavoro prima o poi, avevo ventiquattro anni, il tempo passava, ero grande, era ora di darmi da fare nella vita, “una bella regolata”, disse. Gli risposi che stavo rispondendo a tutte le inserzioni che capitavano, cosa non del tutto vera, anzi falsa del tutto.

Mia madre mi chiese se avevo bisogno di qualcos’altro guardandomi con i suoi occhi di cagna bastonata sempre pronta ad aiutare il prossimo, andava in chiesa tutti i giorni per scacciare la malasorte, va in chiesa credendo di potercela fare ma si sbaglia, finirà sotto terra come tutti. Le risposi di non preoccuparsi, di andare a riposare, andava bene così, l’insalata era stata ottima, e lei mi chiese, stringendo gli occhi, “e le polpette no?”, e io le dissi che si, certo, le polpette erano state un capolavoro, era superfluo dirlo, lei sorrise e salì nella sua stanza per schiacciare un pisolino in attesa di mia sorella che sarebbe tornata tardi come al solito, faceva l’infermiera in uno dei più grandi ospedali della città, in quell’ospedale dove ero stato l’anno scorso prima delle mie vacanze in America, due settimane durante le quali mi ero sentito rinascere, anzi nascere per la prima volta, era bastata un’appendicite e poi quel meraviglioso viaggio in California.

A mezzanotte udii mio padre che con il suo passo svogliato andava di sopra a dormire dopo aver spento la televisione, e mia madre contemporaneamente scese da basso per prepararsi ad accogliere mia sorella, una mossa studiata per non incontrare mio padre, tra i due era sceso il gelo da almeno dieci anni, ma forse mi sbaglio per difetto, gli anni potevano essere diventati addirittura quindici.

Mia sorella arrivò con un po’ di ritardo assieme a un collega che si fermò a bere un bicchiere di vino in cucina insieme a lei e a mia madre, doveva essere l’ultimo amante di mia sorella mascherato da bravo collega, dalla cucina si poteva sentire distintamente il rumore gonfio e stantio di mio padre che russava già da alcuni minuti, e tutti sembrarono arrossire dall’imbarazzo a parte il collega di mia sorella, che fece un sorriso ironico come a dire “il vecchio già ronfa”.

Mia madre mi chiese dalla cucina se volevo stare un po’ con loro a parlare del più e del meno, poi sentii il collega di mia sorella che diceva a mia madre “signora per carità non si disturbi, devo proprio andare, grazie infinite”, e mia sorella che con una prontezza di riflessi che doveva aver appreso al pronto soccorso del suo ospedale gli diceva “ma no, resta ancora un po’, dai, vero mamma che ti fa piacere se resta?”, poi mio padre smise di colpo di russare come se lo avessero ucciso.

Salii in camera mia, presi la carabina Browning che tenevo nell’armadio insieme alle mie carabattole, perlopiù videocassette TDK, lamette da barba Wilkinson, corde, pillole di sonnifero Halcion. Entrai nella camera da letto dei miei genitori, puntai l’arma contro la testa di mio padre e feci fuoco, la sua testa si scosse da una parte all’altra con un certo impeto, una specie di sberla a fuoco, e un rivolo di sangue apparve dal gonfiore del cuscino blu scendendo lento come fosse stata vernice rossa probabilmente antifumo della notoria marca.

Sentii mia madre dire qualcosa che non capii, era troppo lontana e mia sorella continuava a ciarlare con il suo nuovo maschio da corsia ospedaliera. Scesi dabbasso, il collega di mia sorella mi veniva incontro sulle scale, mi chiese cosa era successo, guardò in basso la carabina, io la alzai e da circa un paio di metri gli sparai nel petto un paio di colpi a ripetizione, il rumore fu secco, aspirai l’odore della polvere da sparo, era molto piacevole, quasi quanto l’odore di benzina dei distributori Mobil o Esso o Shell. Lui cadde dalle scale sbattendo la testa cinque o sei volte sui gradini dopo aver fatto un gemito di gola che certamente mia sorella e mia madre non poterono udire.

Scesi le scale fino ad arrivare in cucina attraversando il salotto. Mia madre si sporse dalla porta, “hai sentito un rumore come di uno sparo?”, mi chiese. Le risposi “si certo”, puntai la carabina su di lei e la colpii in mezzo agli occhi marroni e vigili e apprensivi da cagna bastonata. Cadde in avanti come un’ubriaca all’ultimo stadio. Mia sorella vide tutto, lanciò un urlo molliccio, come di sfiato, tentò di raggiungere il salotto, le feci uno sgambetto e cadde bocconi sul tappeto persiano comprato in una famosa televendita dieci mesi prima, la gonna bianca le era salita fino al sedere ben modellato, potevo vederle le mutandine bianche sull’incavo delle natiche, le misi un piede sulla schiena, lei mi chiese con un piccolo urlo perché, io le risposi che non lo sapevo, puntai la canna della carabina sulla sua nuca bionda a boccoloni pronto uso e premetti il grilletto inspirando un lungo grumo di saliva come affumicata. Il suo sangue fraterno schizzò potente come una eiaculazione mestruale fino al soffitto a stucchi bianchi. Accesi una sigaretta, presto sarebbe accorso qualcuno, tanto valeva prendersela comoda e assaporare il momento, mi sedetti sul divano e sfogliai una rivista di scienze naturali di mio padre, ebbi il tempo di leggere un intero articolo che parlava dell’estinzione di una strana specie protetta di cui non ricordo il nome.

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