Amarcord: (che in vernacolo piazzese si dice iè m’ rgord)

di Giovanni Monasteri

Questo poemetto, come quasi tutto ciò che ho scritto, non è recente. Diciamo che quando lo scrissi ero molto giovane (adesso sono soltanto giovane, avendo passato i cinquanta). Mi raccomando, perciò, alla clemenza dei coraggiosi che volessero leggerlo nonostante la sua lunghezza. Suggerisco, inoltre, di considerarlo un testo indeciso tra poesia e prosa (oltre che ancora in lavorazione).
Ricordo il momento, l’occasione in cui lo scrissi. Avevo appena letto il Tonio Kröger di Thomas Mann. Cosa c’entra Tonio Kröger con un poemetto malriuscito, scritto da un contadinio mancato? Nulla, per la verità; ma all’epoca in cui lessi quel racconto riflettevo sulle cause di un mio irrimediabile disadattamento (“sei un adolescente disadattato”, mi diceva la mia fidanzata di allora), e una frase mi colpi, qualcosa che un pittore dice a Tonio Kröger (il protagonista del racconto di Mann): “Sei un borghese disadattato”.

O forse la frase era era “sei un borghese traviato”. Ecco, io mi sentivo un contadino mancato, disadattato e soprattutto traviato. Traviato dalla poesia, dalle cattive compagnie, dalle malefemmine nordiche. Una volta mio padre mi disse: si peggiu d’ ‘na mala annata (sei peggio di una cattiva annata). Ero cronicamente fuori corso all’università, e invece di studiare o cercarmi un lavoro scrivevo poemetti. Ah, avessi dato ascolto alla buonanima! Un contadino non dovrebbe mai fare lavori improduttivi.

Cos’altro? I toponimi (Muliano, Leano, Serradape ecc.) sono di località rurali nei pressi di Piazza Armerina.

I contadini non amano i fiori
(sulla passione per l’antiquariato)

Non ha finestre, quasi non ha porta
il ripostiglio, la grotta
nel recesso più buio, più segreto
della casa dove sono nato.
La muffa nera alle pareti
è soffice come muschio e ha un odore
di salnitro e ammoniaca.
Da nere travi pendono corde secche,
qualche paniere sfondato e ragnatele
disabitate. Neanche più gli insetti
vivono in questa tomba.
La chiave viene perduta
e ritrovata ogni sette anni.
M’invitano a indossare abiti vecchi,
grembiuli scafandri caschi,
se voglio entrarvi a cercare con la candela
cose che altri dicono preziose
senza conoscerne i nomi francesi o arabi.
Appena trent’anni fa erano vive,
ancora in uso. Niente di speciale:
contenitori per olio e conserve,
atrezzi per lavorare la terra.
Cose che non hanno ancora un nome
nella straniera lingua in cui scrivo.
E non vorrei, del resto, per rispetto,
scriverne i nomi in corsivo,
evocarle in dialetto.

Sopravvivono i nomi – e gli scheletri.
Durano poco, oggigiorno, le cose.
Le parole, un po’ più durature,
non sono pietra, sono creta, o rame,
che quando è nuovo sembra oro.
Ma questa è l’epoca della resurrezione,
della vita eterna sulle mensole
di vetro, nei paradisi antiquariali.

Dovrei svuotare questo intestino cieco,
tradurre tutto nella mia nuova casa,
quando ne avrò una: panieri ceste
lumi a petrolio crivelli caldani
stoviglie pentole giare
cordame aratri falci rugginose
e ragnatele spesse come terra.
Ma basterà lavare, restaurare?
E quali piante dovrò coltivare
nel mio giardino?

O cara infanzia, amate cose, vecchie
e non antiche, Itaca
è mai esisistita? E vi ho davvero amate?
Ci eravamo disaffezionati
a voi, alle vostre ombre, come ai malati
che non guariranno più,
e non li guardiamo neppure,
quando siedono a tavola
pallidi e silenziosi.
Trent’anni dopo, di sé non lasciano
che ossidi, gusci vuoti e contraffazioni
persino nella memoria. No, non somigliano
alle patacche in vendita presso gli scavi,
né alle reliquie dubbie degli antiquari
che mostrano gromme e patine “originali”.

Dovrei lodarvi, venerarvi, o lari,
comporre odi per voi e peana.
Invece mi fate pena, come a mio padre.
Nascondetela, quella padella
annerita al fuoco di legna.
Perchè le avete inflitto
il ludibrio di stare lì esposta,
appesa, tra rampicanti e bougainville,
al muro di cinta di un villino,
in compagnia di un’erma di cemento
e di ortensie negli scaldini?
O almeno allontanatela del tutto,
truccatela, mummificatela
come le sue sorelle,
la cui crosta di fumo fu lavata
con l’acido per il water,
e il cui rame splendente, ritrovato,
venne di nuovo cancellato
con nitrato d’argento e ammoniaca
che le insignirono di un verde antico,
da bronzo greco o patella
trovata alla Villa Romana.

I miei ricordi non sono ancora
memorie. E vorrei cancellarli
con plasticoni e vernici. Non posso
tenere i cadaveri dei miei morti
in mostra sul canterano.
Tornato da Milano, del resto, non ho trovato
il lume a petrolio nel granaio,
il fuso e l’arcolaio nel sottoscala.
I miei cugini li hanno razziati
e venduti ai mercanti di Catania.
Puzza di morchia la giara supersite
ancora dopo trent’anni.
Dovrei riempirla di terra, come fan tutti,
e piantarci una palma, o dei gerani.
Ma mio padre e mio nonno a Leano
non piantarono palme, mai, né oleandri,
né rose né gerani. Gli unici orpelli
erano le decorazioni sulle stoviglie,
le ceramiche di Caltagirone.
Ma quelle erano fiori dei padroni,
regali del barone palermitano,
del cavaliere gerosolomitano.
I miei avi piantavano peri e meli
e pomodori, non laurocerasi.
E mandorli e noccioli, altro che ficus.
Seminavano grano, non prati inglesi.
Cipolle, non bulbi di crocus.
Le palme e i fiori stavano ai giardini pubblici,
non in casa e in campagna.

Ce n’erano anche là, fiori, cipressi,
dietro il muro di glicine e spine
che ci vietava la cerca dei nidi,
nella casa che apriva il suo cancello
solo a settembre, quando l’autunno
con l’esattore veniva
a esigere il raccolto dell’annata.
Ed allora cessava
il silenzio solenne in quei giardini.
Gli uccelli vi potevano cantare,
il signorino giocava
con una palla d’oro,
il fiero campiere s’inginocchiava
e baciava la mano.
Narrano che a dodici anni
il signorino morì
per una puntura di vespa,
o forse perì avvelenato
da un bicchiere di vino di Serradape.
E il barone, che aveva celebrato
l’aria salubre dei colli armerini,
non vi tornò mai più.

Ci sono entrato mai in quella casa?
Grande, più grande d’ogni casa umana.
Ero bambino e l’orgia dei tritoni,
là, fra gli spruzzi e i salici di babilonia,
mi parve cosa che forse ho sognato.
Dagli archi un po’ normanni e un po’ moreschi,
dalle mensole e dalle balconate
ghignavano e ringhiavano mascheroni,
un po’ draghi e un po’ grugni satireschi.
E dentro, quanti marmi e princisbecchi!
nuvole a forma d’angeli e madonne
volavano fra stucchi e lampadari.
Le cornici barocche dei ritratti
di Paladino, gli specchi, i doppieri,
le dormeuse le agrippine i luigi dodici
e altre meraviglie che anche adesso
non saprei come chiamare:
roba che certo non potrei trovare
alla Zineffa, rivendita
di vernici e cornici fatte a mano,
barocche anch’esse e di poliuretano.

Il corniciaio vende anche le pecore
di gesso, e putti e piccoli gazebo
per i giardini con bossi e panchine,
cose che tutti possono comprare.
Mi racconta che il padre era un pastore.
E io ripenso agli ovili di Muliano
e al pastorello di quattordici anni
che ammazzò col bastone una ninfa
chiamandola puttana.

Lu iornu pasciva li pecuri
la sira faciva sipali… (1)

Degli ovili come dei terreni
facevano recinzioni con muri a secco.
Le pietre nel ragusano
sono merda del diavolo,
altro che suiseki e giardini zen:
per ogni chicco da seminare
bisognava togliere una pietra.
A Enna, che si chiamava Castrojanni,
le case dei pastori erano grotte,
come nel presepe, e di pietra vera.
I figli di quei trogloditi sono pingui
come tutti gli ex emigrati
e bilingui: ennese e tedesco.
Fanno sopraelevazioni e seconde case
con blocchi di cemento.
Folcloristi antropologi professori
li vogliono specie antica da salvare,
ma quelli non lo sanno: troppi innesti
allignano sull’ignobile nobile ceppo.
Nel campo avito piantano un pesco
e due pini di aleppo.

(1)Da una canzone popolare: di giorno pascolava le pecore/di sera costruiva muri a secco.

[Testo già apparso su solotesto.splinder.com]

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