Il pellegrinaggio alla Madonna del Tindari

di Antonio Musotto

Parte I

Era arrivato un telegramma al municipio, indirizzato al parroco, che era fratello del sindaco.
Il segretario comunale, addetto al protocollo, sbirciò dentro il plico giallo paglierino, lesse la firma, Padre Nino.
Padre Nino era il secondo fratello del sindaco, prete missionario per obbligo e non per vocazione. Dicevano in paese, e non solo i quattro ubriaconi che giocavano a tressette sui tavolini sgangherati del bar nella piazza, che era stato lui ad avere violato l’onestà della figlia del barone Spadafiore.
Il barone gli aveva offerto una scelta, o andarsene per sempre dal paese, o maritarsela: siccome Padre Nino era parrino, e non si poteva maritare, l’unica era andarsene. Altrimenti. Siccome non aveva il coraggio di scoprire cosa c’era dopo l’altrimenti, Padre Nino se n’era partito, appresso all’esercito, in Abissinia, a convertire i fratelli somali.

Nel frattempo il barone era morto, e gli eredi si erano venduto tutto, preferendo la molle vita della capitale alla fatica di reggere il feudo sulle Madonie, in Sicilia.
Il fratello Pietrino, che era parroco, inizialmente era contrario ad avvisare il missionario del fatto che in paese nulla ostava al suo rientro, ma il fratello Sindaco lo persuase rapidamente “ti aiuterà in canonica, e potrai mandare lui anche per quelle funzioni che a te, a causa della tua sciatica, riescono pesanti”.
Certo, c’era da somministrare la comunione agli infermi, o somministrare l’estrema unzione ai moribondi, il paese era scorticato sul costato di una collina calcarea, e salire e scendere scale era inevitabile, Padre Pietrino si stancava, e ci faceva male la gamba, e poi si trascinava tutto il santo giorno.
La mattina che si aspettava in paese l’arrivo di Padre Nino il cielo era stato pulito dalla tramontana, l’aria era limpida e dal belvedere la vista spaziava dalla rocca di Cefalù fino alla punta di Capo Tindari; le Isole Eolie sembravano a portata di mano, sembrava di vedere le finestre delle case sparluccicare ai raggi del sole.
I passi veloci di un caruso, cadenzati dal rumore delle tacce sul basolato, si fermarono sotto alla finestra dell’ufficio del Sindaco, che aveva messo il ragazzino di vedetta al belvedere.
“Sindaco, Sindaco, affacciate!”.
“che c’è, che hai da gridare” disse il Sindaco sporgendosi al davanzale.
“un mulo e due cristiani, li ho visti, al pigno grande sono!”
Al pigno grande. Un mulo e due cristiani. Meno di due ore di cammino per arrivare in paese. Però perché due cristiani? Padre Nino non aveva detto nel telegramma che arrivava in compagnia.
Il Sindaco richiuse la finestra e si rimise a scrivere la lettera che aveva incominciato, e nella quale congiuntivi e condizionali litigavano selvaggiamente, e non c’era verso di appaciarli.
Nella piazza s’era radunata una piccola folla, i soliti schiffarati, alcune donne pie, un certo numero di picciriddi.
Si sentirono prima gli zoccoli ferrati della mula, poi si videro i due cristiani.
“mii ! due sono i parrini” esordì uno dei carusi arrampicati sul muro della canonica.
“gesummaria, uno niuru è!” aggiunse un altro picciriddo.
Padre Nino camminava allato ad un altro sacerdote, nero di tonaca e di pelle.
Il Parroco e il Sindaco si guardarono negli occhi, con la medesima domanda. Il più lesto a reagire fu il Sindaco, che disse al fratello “ aspettavi un aiuto, te ne arrivarono due”.
“E a questo chi ci dà a mangiare?” pensò a voce alta il Parroco, che aveva accettato con sofferenza di dividere le offerte con il fratello reduce dall’Abissinia.
Arrivata nel centro della piazza, la mula si fermò, Padre Nino alzò la mano destra in segno di benedizione, poi alzò anche l’altra mano facendo segno che voleva parlare, e che si facesse silenzio. La mula cominciò a pisciare.
Padre Nino spiegò che la guerra era finita (che fosse andata male lo sapevano tutti e quindi non ne parlò), che lo Spirito Santo aveva vegliato su di lui consentendogli di tornare sano e salvo al paese, e poi raccontò che la provvidenza lo aveva aiutato nella sua opera di missione, e Padre Mimmo (facile italianizzazione di Mohammed) aveva accettato di tornare in Sicilia con lui.
Le devote nella piazza abbassarono gli occhi, Padre Nino aveva sempre lo stesso sguardo di cifaro, ma Padre Mimmo era un masculuni, il diavolo aveva, negli occhi neri come il carbone.
“A schifiu finisce qui” pensò il Sindaco.

Parte II

Maria Catena passeggiava al Belvedere, e pensava e ripensava mentre metteva un passo avanti all’altro.
Rosalia aveva avuto due bambini, Agnese aveva partorito dieci mesi dopo che si era maritata, persino Consolazione “la buffa” aveva sgravato due gemelli, belli, biondi e con gli occhi colore del solfato di rame.
A Maria Catena non ci dava pace il cuore, si era maritata in primavera come tutte le sue amiche d’infanzia, se l’era presa Matteo, un picciottazzo bello forte e, ogni sera dopo cena, quando tornava dalla campagna , si curcavano insieme. Matteo la faceva gridare quando ci buttava il suo latte dentro, ma figli niente. E la casa era piccola e sempre ordinata, ci mancava un nutrico a cui badare. Ci mancava.
Anche Cuncittazza a’biddina, pure che le altre donne dicevano che era selvaggia e animalisca come una strega, magari lei aveva avuto un carmuscio, un bambino che gridava sempre, come a sua madre, che se lo portava legato al petto, attaccato alla minna, quando Cuncittazza andava a pulire lo scalone della chiesa.
A Maria Catena ci mancava, un bambino. Che fimmina è una fimmina che non fa figli, se lo ripeteva di continuo, e glielo ripeteva pure al parrino quando andava in chiesa a confessarsi.
Dietro la grata del confessionale, Padre Pietrino prima si faceva raccontare che cosa faceva Maria Catena a casa, che cosa faceva con Matteo, la sera, e poi le diceva sempre che doveva avere fede, fede nella Madonna della Catena, che le aveva regalato il suo Santo Nome, e prima o poi un bambino glielo avrebbe mandato, la Divina Provvidenza. Che lei fosse sempre quella santa donna devota, che continuasse a portarci il pane caldo con l’olio e l’origano, che dicesse ogni mattina due paternoster e quattro gloria, e dopo che Matteo faceva il suo dovere, a letto, che si alzassero insieme a recitare il Rosario. Intanto i grani del rosario di corallo di Favignana che Maria Catena aveva ricevuto in dono dalla zia Peppina di Cefalù si erano allisciati, a furia di farli scorrere tra le dita, ma picciriddi niente.
A Maria Catena ci scivolò una lacrima sulla guancia, e si appoggiò al muretto del belvedere: come al solito, il panorama era spettacolare, spaziando dal Capo Zafferano alla punta di Capo Milazzo, con le Eolie sullo sfondo, vicine che le potevi toccare ma, piangendo, il panorama neanche lo puoi vedere.
“Perché piangete, sorella”. A Maria Catena ci vennero i vermi allo stomaco per la paura, si girò e vide Padre Mimmo, che la fissava con i suoi occhi neri e lucidi, di ossidiana, dalla distanza di un passo, con il breviario nella mano e l’altra mano sollevata a benedire.
Padre Mimmo, u’niuru. Maria Catena ebbe un attimo di incertezza; certo lo aveva visto in chiesa, dire messa insieme agli altri due preti, ma di parlarci, non ci aveva mai parlato. Anzi credeva che u’niuru sapesse solo recitare a memoria la messa in latino, e che poi si esprimesse a versi e rumori come tutti i selvaggi come a lui.
Maria Catena si sciolse in un pianto dirotto, un po’ per la paura, un po’ perché aveva urgenza di confessare la sua ambascia a qualcun altro che non fosse Padre Pietrino, che dei suoi consigli era stanca.
Padre Mimmo la ascoltò, mentre la brezza di mare muoveva le foglie degli alti alberi di sommacco che delimitavano il belvedere, Maria Catena disse chiaro e tondo che voleva finalmente un bambino.
Padre Mimmo girò lo sguardo verso il mare, e poi disse che dopo qualche settimana si sarebbe organizzato un pellegrinaggio al santuario della Madonna del Tindari, che era conosciuta in tutta la Sicilia per i suoi speciali poteri, che lui stesso era certo che l’avrebbe accontentata.
Come terapia di sostegno, suggerì a Maria Catena di aggiungere alle sue preghiere un’invocazione speciale alla Madonna del Tindari, e le diede un foglietto.
Il cuore di Maria Catena si riempì di speranza, mentre tornava a casa lesse e rilesse la preghiera che le aveva donato Padre Mimmo, e la imparò a memoria.
La sera stessa, dopo che Matteo, il marito, la aveva posseduta con la tenerezza di un toro imbizzarrito, mentre lei pensava allo sguardo luciferino di Padre Mimmo, recitò insieme alle altre la nuova preghiera, certa che avrebbe sortito il suo effetto.
Quella notte dormì con difficoltà, aveva una smania, una caloria forte nel ventre se ripensava a Padre Mimmo, e si rigirava nel letto, mentre Matteo russava come un cinghiale.

Parte III

Per tutto il mese di maggio in chiesa i tre sacerdoti si soffermarono con le devote fino a tardi, per mettere a punto i dettagli del pellegrinaggio alla Madonna del Tindari.
C’era da decidere l’ora di partenza, c’era da calcolare e preparare le vettovaglie, da capire a quale punto della strada si sarebbe trovato il tale convento in cui pernottare, e da raccogliere il denaro per l’offerta alla Madonna.
A Maria Catena sembrava impossibile che si potesse camminare per due giorni per raggiungere quel santuario così lontano. Una sera ne parlò con Matteo, spiegandogli che questo pellegrinaggio era necessario per la sua gravidanza, e gli chiese di accompagnarla.
Matteo bestemmiò, disse che c’erano le vacche da mungere e il grano da mietere, e che proprio non ci poteva venire. Né tantomeno avrebbe potuto andarci lei, la sua sposa, non poteva lasciarlo solo per due giorni per andare a fare una passeggiata con i preti. Maria Catena si restò zitta, ma quella notte tenne le cosce così strette che Matteo non riuscì a montarla come al solito; siccome era stanco e durante la discussione aveva anche bevuto, ad un certo punto si addormentò.
Maria Catena restò a fissare il tragitto della luna dalla finestra lasciata aperta, sotto il soffitto di legno e tegole faceva già caldo.
La notte successiva Maria Catena riformulò la richiesta di andare al pellegrinaggio, di nuovo Matteo bestemmiò come un turco, di nuovo disse no, arrè si bevette un litro di vino rosso. E di nuovo Maria Catena serrò le cosce, e resistette ai vani attacchi di quel gorilla brillo di suo marito.
La storia andò avanti per sette giorni, con le medesime modalità, finchè Matteo acconsentì che Maria Catena andasse a quello stramaledetto pellegrinaggio alla Madonna del Tindari.
“Quando arriveremo al santuario” le disse Padre Mimmo prima di partire, “dovrai raccoglierti in preghiera davanti alla statua della Madonna, e non guardare nient’altro e non pensare a niente. Prega con tutta la forza che hai, e la Madonna ti farà la grazia”. Maria Catena si cominciò a preparare, per lei l’obiettivo era uno solo, qualsiasi sforzo era da indirizzare verso il suo personale successo.
Il viaggio a piedi durò più del previsto, molte delle devote non erano abituate a camminare, cosicché ci vollero due pernottamenti, il primo al monastero di Santo Stefano di Camastra, il secondo in una scuola elementare di Gioiosa Marea, vuota visto che gli alunni erano già in vacanza. Il direttore era cugino del Vescovo e, avvisato da questi della necessità di fare bivaccare i pellegrini, non si tirò indietro.
Finalmente, il terzo giorno, alla fine della ripidissima erta che portava in cima allo sperone roccioso su cui si ergeva il santuario, preti e devoti, stanchi e sudati si accostarono al portone. Padre Mimmo lo spalancò e tutti sciamarono dentro, avvolti dalla frescura e dall’odore dell’incenso.
Maria Catena seguì, stanchissima, il gruppo fino all’altare. Alzò gli occhi per guardare la statua, e prepararsi alla preghiera.
“Ma è niura!” esclamò Maria Catena, al cospetto della statua della Madonna del Tindari, dall’incarnato nero, come nero era il bambinello che reggeva in braccio.
Passato il primo momento di sgomento Maria Catena pensò che, niura o bianca, lei era lì per farsi fare il miracolo, e si mise in ginocchio a pregare. Pregò, sgranando rosari su rosari, non accorgendosi del tempo che passava, pregò tanto che ad un certo punto sentì come un tuono nelle orecchie, la vista s’affumò, le ginocchia diventarono molli come il burro, e cadde a terra, svenuta.
Le devote si fecero intorno alla mischina, stesa per terra svenuta per l’estasi mistica, e visto che non si ripigliava, chiamarono Padre Pietrino e Padre Nino, per decidere sul da farsi. Il priore del santuario aveva una carrozza e due cavalli, con i quali di solito portava fino in cima i turisti facoltosi, e dietro la promessa di una ricompensa acconsentì a preparare il traino su cui caricare l’inferma: sarebbe bastato un solo giorno di viaggio per ricondurla al paese, gli altri sarebbero ritornati a piedi come programmato.
“Ma non possiamo mandarla da sola” disse ad un certo punto una delle devote, lontana cugina della povera svenuta.
“L’accompagnerà Padre Mimmo” sentenziò Padre Pietrino, che essendo il più anziano dei tre, si sentì in dovere di prendere una decisione.

Parte IV

Maria Catena si riprese dallo stinnicchio che l’aveva presa davanti alla Madonna del Tindari non appena la carrozza fu in vista della rocca del suo Paese. Per tutta la durata del viaggio era rimasta in uno stato di semiincoscienza, agitata da strani sogni, come quello di un enorme serpente nero che strisciava sulle sue gambe. Si lamentava, delirava, Padre Mimmo la faceva bere, e poi lei tornava a distendersi, e continuava a sognare il serpente; in uno dei sogni aveva l’impressione che il serpente nero uscisse proprio dalla tonaca del parrino, ma non era in grado di capire se era sogno o realtà. Ad un certo punto si sentì più sveglia, presa dall’ impetuoso desiderio di ritornare a casa, ad occuparsi di Matteo ed aspettare il miracolo.
Si sentiva strana, turbata, ogni volta che gli occhi armalischi di Padre Mimmo la guardavano, e lei attribuiva questo turbamento a quanto successo al Santuario, la preghiera, lo svenimento, il viaggio di ritorno in carrozza.
Arrivati alle porte del paese Maria Catena si sentì bene, e si alzò dal pagliericcio che era stato sistemato nella carrozza, si sedette bella dritta e si mise a chiacchierare con Padre Mimmo.
Arrivò a casa, la stanza di sotto era tutta sottosopra, si capiva chiaramente che Matteo non aveva spostato neanche una sedia nel periodo della sua assenza per il pellegrinaggio, sistemò il disordine, mise le patate nella quadara sopra al focolare, si conzò la vestina e i capelli e attese il rientro del marito dalla campagna.
Dopo cena, si curcarono insieme, Matteo la prese con la delicatezza di un maiale selvatico, Maria Catena continuò a recitare l’invocazione alla Madonna del Tindari per tutta la notte.

“Matteo, sei padre, masculu è”, disse il medico condotto mentre si lavava le mani, e l’ostetrica lavava il neonato, che urlava come un’ossesso.
Erano passati nove mesi giusti dal pellegrinaggio alla Madonna del Tindari, ed era arrivato un picciriddo nella casa di Maria Catena e Matteo. L’ostetrica appoggiò il neonato sul petto della puerpera, lei se lo avvicinò alla minna, sentì che succhiava, succhiava forte. Aprì gli occhi.
Un picciriddo bellissimo, nero come la pece.
Matteo non era ancora entrato a vederlo, s’affruntava a entrare, Maria Catena disse all’ostetrica, con la poca voce che le era rimasta dopo le urla delle doglie, “Mimmo, Mimmo lo voglio chiamare”.

(c) Antonio Musotto
racconto già apparso su http://medicineman.splinder.com

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