Un po’ d’America

L’ho fatto. Ho sognato di farlo per tanto tempo e alla fine ci sono riuscito. Sono andato da Luigi’s e gliel’ho detto: guarda che la “pizza with pepperoni” non è italiana. Suona italiano ma non è italiana, perché in Italia, pepperoni si dice peperoni, con una p sola, e i peperoni are vegetables, verdure, you know?
Ecco, fatto, detto, spiattellato. Così Luigi’s, che poi non si chiama Luigi’s, ovviamente – perché la s dopo l’apostrofo è il genitivo sassone che identifica il proprietario della pizzeria – Luigi, dicevo, mi sorride in maniera amabile, amabilissima. Ché lui, ai clienti strambi che vengono qui a dettargli le regole del suo mestiere di pizzaiolo tipico italiano, deve averne già incontrati a migliaia. Mi sorride e poi risorride. Come a riflettere sul quel vegetables, verdure, utilizzato perché ortaggi non so come si dice, e allora ho ripiegato sulla parole che mi sembrava più pertinente. E alla fine della riflessione dice: “Really?”. Che mi chiude la bocca come fosse uno “Sticazzi!!”, con due punti esclamativi, mica uno. Ma “really” è meglio, più cortese, fa sorridere anche me e mi porta a considerare che, be’, ma che vuoi che sia. In Italia la chiameremmo pizza diavola magari, per via del salame piccante, o margherita con salame. Ma qui la margherita non c’è, se la chiedessi non saprebbero che darmi. La chiamano regular oppure pizza with cheese, col formaggio. E appena ha detto “really”, ogni mio desiderio di protesta per quel “pepperoni” utilizzato impropriamente, svanisce. Così ordino un trancio di regular e uno di pizza with pepperoni. E una lattina di Pepsi. Ma sì, alla faccia della dieta. Calorie, zuccheri, buttiamo giù. Sempre meglio del chicken over rice che mi hanno rifilato davanti a Central Park. Al primo boccone mi ha lasciato senza fiato e senza parole. Per un istante ho pensato di lasciarci le penne. Immaginavo già l’epitaffio: “Padre amorevole e marito beneamato, ci ha lasciati troppo presto, stroncato sulla panchina di un parco dal primo boccone di cibo etnico mangiato in terra d’America. Lo compiangono la moglie, la figlia, gli amici e i parenti tutti, o almeno una buona parte, ché non si può piacere a ogni persona che si conosce. Il pakistano, che gli ha venduto la salsa piccantissima spacciata per piatto tradizionale del suo paese, ancora ride.”
In ogni modo, o “anyway”, come dicono da queste parti, il piatto di pollo con riso non mi ha spacciato, ma affamato sì. Quel poco che sono riuscito a mandarne giù ha generato una grande tarantella, dalle parti del piloro e, giù giù, negli intestini. Come se il pollo, resuscitato dentro di me grazie alle virtù della salsa piccantissima con cui il pakistano lo aveva ricoperto, avesse deciso di farmi provare la durezza dei suoi artigli, beccandomi al contempo l’interno dello stomaco. Per non dire della preoccupazione che provo al pensiero che ciò che è entrato dovrà uscire, prima o poi, e allora sì che potrò verificare, con certezza, quanto è alta la mia soglia del dolore.
Anyway, cca semu, davanti alla pizza with pepperoni. Italian pizza, cotta a Brooklyn da un pizzaiolo dai tratti somatici inconfondibilmente non italiani. Mi verrebbe da chiedere: ma il pizzaiolo è pakistano pure lui? Non lo faccio, non capirebbero il “pure lui”, lasciamo perdere. Del resto, nemmeno Luigi è Luigi. Il tizio che amabilmente mi ha sorriso nega di essere lui Luigi, ma indica un altro tizio alla sua destra e dice: “Luigi was his grandfather”, “Luigi era suo nonno”. Il nipote di Luigi sorride, ma sembra scocciato. Indica una foto appesa alla parete. Eccolo Luigi, sul marciapiede della Avenue U di Brooklyn, davanti alla pizzeria. Ha un cappotto nero, un capello a lobbia, è abbastanza corpulento. Nel complesso sembra uno dei personaggi de Il padrino, e anche il contesto è quello: l’insegna Italian Pizza sullo sfondo, un banco di frutta all’incrocio, quell’effetto un po’ sgranato delle foto a colori degli anni ’70. Mancano solo Vito Corleone a passeggio con quell’imbranato di John Cazale / Fredo.
Insomma, il posto è quello, ma il contesto è cambiato. Di italoamericani ne sono rimasti pochi, pochissimi, praticamente solo la zia Josephine che ci ospita. È lei che ci ha spiegato le dinamiche etniche della zona. Praticamente gli ebrei hanno acquistato quasi tutte le case unifamiliari della zona e adesso la corteggiano per comprare anche casa sua. Prima di arrivare da Luigi’s, di ebrei ne abbiamo incontrati in quantità. Sciamavano via dal quella che ho immaginato essere la sinagoga, nel bel mezzo della ventunesima strada. Riconoscibilissimi per i lunghi cappotti neri e i cappelli a falda larga e le barbe. Altri, vestiti in maniere più informale, ma comunque con la kippah in testa, o con i lacciuoli a vista di un paramento che va indossato sotto la giacca, ma di cui non ricordo il nome. M’informerò.
Vito Corleone, comunque, non passeggia più per l’Avenue U. Si troverebbe a disagio tra ristoranti uzbeki e venditori di frutta pakistani, macellerie halal e kosher, e locali che promettono tradizionale cucina vietnamita. La diciottesima strada è piena degli studi di medici con nomi che rimandano all’est Europa. Zia Josephine, che l’Italia l’ha lasciata negli anni ’60, porta in italiano la parola inglese, e ci spiega che qui è pieno di russiani, gente istruita, anche laureata, che però non può sempre esercitare la sua professione, e allora si accontenta di quello che c’è, svolge qualsiasi lavoro che dia uno stipendio e tira avanti. Come dire, mentre in Tv vedevo un’America di un certo tipo, nella realtà quell’America è già cambiata e i nuovi americani sono altri.

Anyway, la pizza era buona. Il nipote Antonio ha voluto provare anche la Pizza with pasta. E stavolta la pasta era proprio pasta. Pennette rigate che Antonio mi ha assicurato essere anche decentemente al dente.
Anyway, confermo anche io. La Pizza with pepperoni era buona. La regular pure meglio.

(Brooklyn, 29.06.2019)

ps: Grazie al nipote Antonio per i preziosi suggerimenti.

 

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