A pagina 90 de “L’oscurato”, un romanzo di Alfonso Leto…

di Mauro Mirci

A pagina 90 de L’oscurato, un romanzo di Alfonso Leto, accade qualcosa che mi manda indietro di un quarto di secolo. L’oscurato, dalla cima del monte su cui sorge Caltabellotta, osserva il paesaggio e, sotto la guida di un giovane del posto, scorge tre villaggi sulle colline sottostanti, “e ancora altri più in là, sempre più sbiaditi verso un altro orizzonte di boschi e montagne”. Mentre leggo riconosco i “tre villaggi”: Burgio, Lucca Sicula e Villafranca. Me li trovavo davanti, uno dietro l’altro, provenendo da Bivona e dopo avere percorso la strada che  corre tra la parte più meridionale dell’altopiano di Rifesi e il cuneo roccioso di Rocca della Ferita. Che finisce a punta, proprio come le montagne che disegnano i bambini delle elementari. E su quella punta mi strappai un paio di pantaloni. Prima passavo attraverso Lucca Sicula, poi attraverso Villafranca e, infine giungevo a Burgio. Villafranca e Burgio sono unite dalla strada statale. Un tratto di un chilometro, o giù di lì. Ogni tanto ci incontravo famigliole e giovani che passeggiavano tra un paesetto e l’altro.

Venticinque anni fa ho percorso senza sosta le campagne che circondano questi paesi, ho studiato dirupi, valloni e trazzere, ho imparato ogni viottolo e recinzione. Le uniche informazioni di carattere geologico su questo comprensorio le avevo ricavate da un lavoro pubblicato da George Mascle, un geologo francese. Mah, si vede che questa è zona prediletta dai francesi. Geologo e monaci. La gente del posto vedeva questo giovane col cappello di paglia e la bussola andare in giro per raccogliere sassi e colorare mappe e ogni tanto gli domandava: ma allora, la fanno ‘sta benedetta strada? A chi mi chiedeva, m‘impegnavo a spiegare, con doverosa semplicità, che ero uno studente di scienze geologiche che preparava la tesi di laurea.

E da dove vieni?, mi chiedevano?

Da Catania, rispondevo. Perché spiegare dov’è Piazza Armerina mi sembrava troppo difficile, mentre dov’è Catania si sa. E poi l’università stava lì, a Catania.

Mii, così lontano ti mandarono?, era la risposta abituale.

Poi qualcuno mi offriva un sorso d’acqua, qualcun altro una cassetta di frutta: in genere si trattava di pesche (è una zona fertile, quella del fiume Verdura, nella grande piana alluvionale immediatamente a valle di Burgio).

Una volta mi riempirono il cofano della Panda di cavoli che non osai rifiutare e regalai agli amici di Bivona, dove avevo preso una stanza in affitto. Il donatore era un contadino di Burgio, e mentre spipettavamo una delle mie MS seduti su un pietrone, mi ricordò la più nota massima siciliana. Nota, certo, ma è sempre bene tenerla presente, perché io non ti conosco, tu non mi conosci, e anche se stiamo fumando insieme le tue sigarette e tu stai per portarti via i miei cavoli, restiamo due estranei che non sanno cosa attendersi l’uno dall’altro.

“Male non fare, paura non avere”, disse il donatore di cavoli, dopo che gli avevo raccontato di come la gente delle campagne, anche se mi vedeva spuntare dalle fratte e non aveva idea di chi fossi, mi trattasse sempre con cortesia e la massima cordialità. Fu così che feci due più due e mi ricordai del pastore che, quando l’avevo incrociato, mi aveva raccontato per filo e per segno le mie azioni dell’ultima mezz’ora. Non m’ero accorto di lui e glielo dissi, stupito per l’esattezza della sua relazione. “U visti di cca ‘ncapu”, rispose. “Di cca si vidi tuttu”.

“Cca” era la cima di una rupe che dominava la vallata che io avevo percorso.

E insomma, l’oscurato, dall’alto della rupe di Caltabellotta, osserva  i villaggi e le campagne che abbiamo detto, e spinge il suo sguardo anche più in là, verso Bivona, verso Santo Stefano Quisquina, dove sorge il monastero di Santa Rosalia alla Quisquina.

Sarà quella la destinazione dell’oscurato.

È il 1987.

Nel 1987, nel monastero di Santa Rosalia  alla Quisquina (che, detto per inciso, deriva dal termine arabo coschin, ossia oscurità), “nell’oscura” (ancora!) “provincia siciliana ancora marcatamente pastorale”, un trentacinquenne Alfonso Leto, artista stefanese, sta allestendo una mostra di opere “esteticamente impertinenti” che, idealmente “traccia un arco, un’iperbole che dalla capra girgentana” giunge “direttamente a Yves Klein e” si ramifica “in altre visioni e commistioni altrettanto ermetiche”.

Non sa che tra breve incontrerà l’eremita francese. Ignora anche che di questo incontro, molti anni più avanti, farà un’opera narrativa.

Alfonso Leto mentre indossa la maschera da demoiselle d’Avignon, lo stemma in petto da sommelier della santità (Santa Rosalia) e impugna i pennelli del pittore – immagine tratta dalla pagina FB di A.L.

Quindi, si diceva, nel monastero giunge l’oscurato, nelle vesti di un monaco francese in cerca di solitudine e silenzio. Giunge accreditato di raccomandazioni importanti, sicuramente il vescovo, ma forse anche ben più alte gerarchie. E a questo punto inizia il romanzo diAlfonso Leto, che con voce bella e pulita da scrittore ben attento al significato delle parole, racconta le vicende di Martial Gorén, eremita, e del suo rapporto coi luoghi e con la gente che lo ospitano. Quello di Alfonso Leto è un racconto molto ben scritto, con grande attenzione alla musicalità della prosa e all’esattezza dei significati. Sembra di riconoscervi la precisione di Sciascia e la poesia di Consolo. Anche lo svolgimento della storia è sviluppato con senso della misura e senza indulgere in furberie narrative. Leto lascia spazio ai personaggi e alle loro azioni. I flussi di coscienza del narratore, poi, tengono insieme il tutto e danno spessore e nerbo al racconto. Che pare lento, ma di quella lentezza sorniona delle storie che hanno cose interessanti da dire. Ne risulta una trama ben costruita, fluida e affascinante, dove lo stile elegante aiuta a superare le parti meno alla portata di chi mastica poco di arti figurative e pittura (il sottoscritto, per esempio, mentre Leto è un pittore ricco di conoscenze ed esperienze). E, insomma, l’autore ribadisce in questo modo che la letteratura è coerenza stilistica e narrativa, e per leggere una storia ben raccontata anche il lettore deve sacrificarsi un po’.

Eremo di Santa Rosalia alla Quisquina

Sulla trama dico poco. C’è questo padre Martial Gorén che giunge al monastero e mostra subito dei comportamenti molto particolari, come quello di gettare nascostamente il cibo che i devoti, con affetto, gli regalano. O come la ricerca di una solitudine perfetta. Ricerca che, se inizialmente sembra normale per un monaco eremita, andando avanti assume aspetti inquietanti. Piccoli misteri che generano qualche conflitto e un episodio tragicomico. Padre Gorén ignora, infatti, che la festa per la celebrazione di Santa Rosalia prevede un grande pellegrinaggio di fedeli al monastero, con avanzata dei fedeli stessi, molti dei quali a cavallo, a passo di carica verso il monastero. Colto dal panico, il religioso prende la fuga per rifarsi vivo solo nella notte. Per non dire dei turisti che visitano l’eremo. Addio sogni di perfetta solitudine.

Cosa avrà mai temuto il monaco eremita da tutti quei pellegrini in festa? Cosa lo ha impaurito tanto? Quale è il mistero che il francese nasconde? Nella seconda parte del romanzo, a chiarire tutto interviene una nota scritta che un signore “che preferisce non essere nominato” rinviene nell’antico monastero di Rifesi. Una storia di vendette e delazioni che risale agli anni della seconda guerra mondiale e dell’occupazione nazista della Francia.

Bene, mi sembra d’aver detto tutto quello che si poteva dire senza rivelare troppo della trama. Che, poi, uno può pure tentare di immaginare (Fulvio Abbate, nella prefazione, fornisce molti più indizi di quelli che fornisco io), ma insomma, questo libro di Alfonso Leto merita di essere letto e gustato.

“L’oscurato”, di Alfonso Leto, è pubblicato da Navarra Editore, Palermo. Non costa nemmeno tanto.

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