Giulia Fazzi. Ferita di guerra

di Andrea Carraro

Su Stilos e sul sito dell’editore Alberto Gaffi, compare le recensione che segue, dedicata dallo scrittore Andrea Carraro al romanzo “Ferita di guerra” di Giulia Fazzi. Il volume è copyleft, ed è disponibile anche on-line. E’ on-line che ne ho letto l’incipit, ricavandone la sensazione di avere a che fare con un buon libro. (ma.mi.)

Chi scrive libri come “Ferita di guerra” di Giulia Fazzi (Gaffi editore) credo sia spinto innanzitutto dall’indignazione. Indignazione nei confronti di un fenomeno di manifesta inciviltà che in questo paese ha radici antiche e profonde e che non accenna minimamente a diminuire.
Gli episodi di violenza carnale, in tutte le sue forme, sono purtroppo all’ordine del giorno, al punto che quasi non fanno più notizia sui giornali, a parte qualche caso clamoroso.
In questo libro la violenza carnale fiorisce in un contesto di lavoro, ed è una figura dirigenziale ad esercitarla su un’operaia, quindi se possibile l’episodio è ancora più grave perché si può leggervi anche del disprezzo sociale e perché avviene sotto l’insegna del mobbing.
Dico subito che questo è un libro necessario proprio nella misura in cui è un libro sgradevole, che fa male, che ti mette in discussione in quando maschio e in quanto italiano. Un libro sgradevole, scomodo, che ti mostra da un lato l’entità dell’offesa inferta alla protagonista (e a tutte le vittime di questi orrendi crimini) e dall’altro l’ottusa arroganza del maschio stupratore.
Una delle cose più riuscite è la rappresentazione della vergogna e dell’assurdo senso di colpa che si porta dietro la protagonista dopo la violenza subita nel lungo intervallo (5 mesi) prima che trovi il coraggio di sporgere denuncia.
E’ tristemente noto come chi subisce violenza debba poi fare i conti con sentimenti autocolpevolizzanti: si prova vergogna e nausea verso la propria immagine, l’autostima comincia a vacillare. Ma “Ferita di guerra” non è solo un libro di denuncia contro la violenza sessuale e il mobbing, o contro la cultura del maschio dominante in Italia. La denuncia c’è, ma c’è anche l’intenzione dell’autrice di rappresentare una realtà sociale senza infingimenti, di dire la verità attraverso uno stile in grandi linee realistico.
Scavando un poco, si può leggere nella vicenda il conformismo presente nella società di provincia (la vicenda si svolge a Carpi), una società cinica e maschilista che non assolve neppure di fronte all’evidenza e lascia sempre un margine di dubbio e di diffidenza verso la donna violentata.
“Se lo sarà cercata”, commentano malignamente le persone del paese quando vengono a sapere della violenza che la protagonista ha subito in fabbrica da parte del figlio del padrone. Un conformismo presente anche nell’ambiente del lavoro dove fioccano pettegolezzi, maldicenze e dove Lisa si trova sempre più emarginata, anche per via del suo impegno sindacale.
Ma perché scrivere storie del genere? Ci si potrebbe chiedere: non bastano le cronache dei mass-media a denunciare questi crimini?
Alcuni critici sostengono che i romanzi non devono parlare della realtà bruta perché questo già lo fanno i giornali e la televisione…
Conosco l’obiezione. Ma il giornalismo ti mostra quasi sempre un’immagine convenzionale, stereotipata di tali fenomeni, ancorata a una sociologia spicciola. Libri come “Ferita di guerra” rappresentano invece prospetticamente l’interiorità offesa della protagonista, attraverso i suoi pensieri, le sue riflessioni e le sue azioni.
E’ un errore macroscopico mettere sullo stesso piano giornalismo (informazione) e letteratura. Spero che questo libro non susciti obiezioni del genere, ma ne dubito. In Italia sposare una poetica dichiaratamente realistica affrontando temi di denuncia civile non è facile, rivela del coraggio, non dimentichiamoci che questo è il paese della bella pagina.
Per il libro di Giulia Fazzi si potrebbe parlare perfino di letteratura d’impegno, che di questi tempi non va precisamente di moda.
Parentesi: sono in molti a sostenere che oggi gli scrittori mediamente scrivono meglio, tecnicamente parlando, rispetto a dieci, venti o trent’anni fa. E questo è facilmente riscontrabile anche fra i giovani scrittori. La qualità media della scrittura si è elevata. Ma si può pubblicare un libro solo perché è scritto bene anche se non ha nulla – o molto poco – di significativo da raccontare?

Il romanzo della Fazzi non appartiene alla categoria dei libri “carini” e “inutili”. Sarà magari imperfetto (gli avrebbe giovato un editing più robusto), ma ti lascia dentro qualcosa di duraturo.

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