La pagina nera di Francesco Lanza

di Enzo Barnabà

Ricevo da Enzo Barnabà questo breve saggio su Francesco Lanza. L’autore valguarnerese noto soprattutto per i Mimi siciliani, opera nella quale sono rappresentati personaggi che, spesso, sono entrati a far parte dell’immaginario collettivo, mostra, nelle corrispondenze inviate dalla Romania negli anni ’30, un aspetto inedito della sua scrittura. E’ espressione di convinzione ferma o “comoda” adesione a una discutibile linea editoriale?. ma.mi.

Nel 1930 l’attività giornalistica dello scrittore valguarnerese non conosce soste; nulla lascia prevedere il crollo, da cui non si riprenderà mai più, dell’anno successivo. Pubblica sull’Italia Letteraria, sull’Ambrosiano, sulla Gazzetta del Popolo e soprattutto sul Tevere, al quale collabora ormai da tre anni. Telesio Interlandi, il direttore del quotidiano romano, convinto che la prosa del corregionale conferisca “dignità e scarna bellezza” al suo giornale, gli affida “molti e diversi compiti”.[1] Anche quello di inviato speciale. A fine primavera, Lanza è in Sardegna (ma il servizio si limita alla descrizione dell’arrivo a Cagliari e a una breve fantasia suggerita dal folclore isolano).
Due giorni dopo la pubblicazione di questi articoli, a partire dal 12 maggio, è la volta di una serie di corrispondenze dalla Toscana, a copertura del viaggio che vi sta effettuando Mussolini. E forse proprio in questo incarico vanno ricercate le ragioni dell’aborto sardo: Interlandi sa bene che il Tevere è uno dei giornali su cui maggiormente si sofferma l’interesse del duce durante la rassegna stampa mattutina e ritiene opportuno coinvolgere il meglio di cui dispone in redazione. (Con ogni probabilità – apro e rapidamente chiudo questa parentesi – a quei giorni va fatto risalire il mussolinismo che spinge Lanza a desiderare di “vedere se con un po’ di fascismo bene applicato non sia possibile insegnare un po’ di civiltà ai villanzoni del circolo, dei feudi e delle farmacie”[2]).A giugno, Interlandi invia Francesco Lanza in Romania. Perché in un paese che non stimola più di tanto l’interesse dell’opinione pubblica? Nessuno, che io sappia, si è mai posto questa domanda. Facciamolo adesso nella speranza di trovare una risposta convincente.

Nel 1930 la Romania è forse il paese più antisemita d’Europa. Vi opera il fascista violentemente antisemita Codreanu e soprattutto il maestro di questi, Alexandru Cuza, professore di economia all’Università di Iasci,[3] il quale, alla testa del Partito Nazional Democratico, si prefigge l’eliminazione degli ebrei dalla vita politica ed economica del paese. Cuza, che era stato tra i fondatori della cosiddetta Alleanza Antisemita Universale, si vanterà di aver preceduto Hitler su questo terreno. Interlandi sceglierà, com’è noto, nel 1933 di giocare la carta di quell’antisemitismo duro che sfocerà nell’ignobile Difesa della razza e spianerà la strada alle leggi razziali; ma chi può escludere che già nell’estate del 1930 non stia cominciando ad oliare il proprio lugubre armamentario al fine di smuovere le acque del regime, in questa materia stagnanti?
Francesco Lanza invia dai Carpazi tre corrispondenze che vengono pubblicate, con cadenza quindicinale, a partire dal 14 luglio. Non conosciamo l’itinerario reale del suo viaggio, ma la scelta delle località oggetto degli articoli pone qualche interrogativo. Si inizia con Galazi dove Lanza tratteggia una serie di bozzetti che intendono trasmettere al lettore quel tanto di pittoresco che egli trova nella città portuale, suo primo approdo, se era arrivato via nave, in terra rumena. Poi è la volta di Cernaùzi, che sembra essere il vero obiettivo del viaggio, ed infine la località petrolifera di Moreni, dantesca ferita inferta ad un paesaggio bucolico. Sono escluse, come si vede, le tappe canoniche del tour romeno, dalla capitale alla Transilvania.
Cernaùzi (oggi Chernovtsy in Ucraina) non si trova sulle rotte più frequentate, bisogna andarci apposta. Cosa può aver indotto l’inviato Lanza a recarvisi se non il fatto che fosse la città ebraica per antonomasia? E’, infatti, sulla comunità ebraica, descritta con gli occhiali deformanti del razzismo, che si sofferma in particolare la sua attenzione:

“Intorno c’è che il brulichio denso e incessante degli ebrei : si ha l’impressione che muovano lentamente, da ogni parte, all’assalto della città, sgretolandola ai margini, come fanno le formiche d’un mucchio di frumento. Hanno provato la scudiscio russo, il bastone tedesco, il disprezzo romeno, il fuoco, lo stillicidio della piccola lotta antisemita che da Iasci dirige il professore Cuza: ma è un flit che non serve a niente. Indistruttibili e pervicaci come le mosche depongono le loro uova fra le immondizie del ghetto, riempiono le insegne di nuovi Aronni, Isacchi, Mosè, Ezechieli, Giacobbi, aprono ad una ad una, come posti avanzati, dai quartieri eccentrici a via Flondor che serba tuttavia la sua malinconica ed appartata eleganza, le botteghe di tricotarje, d’abiti vecchi sciorinati fin nel mezzo della, strada, di sete ricamate, di delicateze, di fiori, di frutta, d’oggetti chirurgici ed ottici, le farmacie, i ristoranti le agenzie di viaggio e di commissione avviano sulle acque del Prut al Danubio i barconi carichi di legname, di mattoni e di tegole, filtrano insensibilmente il torbido e la passività avida e corrosiva della loro razza nell’esercito e nei pubblici uffici; spingendosi in su, piantano sulla cupola della grande Sinagoga, proprio di fronte alla Residenza Metropolitana, il sigillo scintillante di Salomone, come un segnacolo di riscossa.
La piazza del mercato alto, dinanzi il teatro Nazionale in cui la compagnia di Stato prova i drammi di Caragiale, risuona tutto il giorno del loro vocio. Per un leu non si sa più che cosa sono capaci di darvi. Sedute per terra, davanti alle stie piene di polli, ai falsi tappeti della Bessarabia, agli oggetti in legno, ai mucchi d’abiti vecchi impregnati di naftalina e di benzina, le ragazze lanciano gridi collerici e disperati come la fame. Il venditore di paperi, in camiciola, gira come un fantasma con un grido gutturale simile a quello delle bestie che porta sotto le ascelle. In questo pittoresco e soffocante cafarnao splendono a un tratto i più begli occhi della Bucovina, i sorrisi più vellutati; s’incontrano i più lerci rabbini e lettori, impolverati di forfora dalla testa ai piedi, e i più maestosi, col peso di tutto l’antico testamento sulle spalle, la lunga barba mosaica sul petto e l’occhio obliquo e tumefatto, come quello dei cadaveri, dietro gli occhiali d’oro a stanghetta, nelle carrozzelle i neonati di men basso conio, dalla mutria di nibbio implume, espongono bellamente al sole, sopra un pannolino, la recente circoncisione. In basso, dietro la zona degli opifici dove tra i susini e i meli si nasconde, come una capanna, la piccola chiesa in legno innalzata da Stefano il Grande, il ghetto s’ammucchia disordinatamente, spruzzato di calce come un carnaio, tagliato in sudice fette dai cortili e dalle viuzze, dai cenci messi ad asciugare, dalle mascalcie e dalle fucine de’ calderai all’aperto dietro un semplice riparo di lamiera o di tavole. Negli antri di legno gli uomini s’annidano come le pulci in una calza, con la stessa precaria pertinacia, in quattro per ogni tettuccio. C’è un miserabile lezzo di pollaio, un senso d’esodo fermo in una pattumiera. Uno scossone basterebbe a buttar giù il mucchio sordido e cascante delle case, delle vie, dei cortili, ma questi esseri dal volto uguale, collettivo, vi sono radicati più delle rocce nel deserto. Sotto i carri e nelle stie, invece dei polli si pigiano i bambini, vi dormono, come morti, la maggior parte del giorno. Nel piccolo mercato, i pesci e le carni sanguinolenti marciscono lentamente sui tavoli, sotto i nugoli di mosche, ammorbando l’aria. Per un occulto potere, questo sole cocente decompone i mucchi di cipolle, d’agli, di frutta, la calce e il legno delle case, le pietre, l’anima stessa della razza”.[4]

Sono parole che mai ci si sarebbe immaginato di trovare nella candida bocca del mite scrittore di Valguarnera. Lanza qui, come si vede, non si fa scrupolo di attingere a piene mani pregiudizi tra la paccottiglia antisemita; perché? Non pare vi siano dubbi sul fatto che l’inviato abbia eseguito con zelo le direttive del proprio direttore; magari dopo essersi fatte rinfrescare le idee da Alexandru Cuza, visto che bisogna passare da Iasci quando da Galazi ci si reca a Cernaùzi. Qualche mese dopo, Lanza effettuerà il celebre viaggio in URSS avendo come guida Otto Pohl, il diplomatico austriaco di religione ebraica che aveva scelto la rivoluzione socialista. Francesco conserverà di lui un ottimo ricordo5 ed avrà con la figlia Annie un felice rapporto di lavoro. Antisemita in pubblico, ma non in privato. Un chiaro caso di nicodemismo, la sindrome opportunista che durante il ventennio infierì tra gli intellettuali italiani.

Enzo Barnabà
www.enzobarnaba.it

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Una risposta a La pagina nera di Francesco Lanza

  1. Salvatore Lo Leggio dice:

    Quanto è grande la capacità corruttrice del potere. Cedono anche i migliori. Ma qualcuno resiste. Stalin in persona ci provò con Bulgakov, al telefono. Non ricavò un bel nulla.

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