Marco Scalabrino. Canzuna di vita, di morti, d’amuri

di Giovanni Nuscis

Di Marco Scalabrino, poeta, saggista e traduttore che vive a Trapani dov’è nato, nel 1952, esce per i tipi di Samperi Editore la nuova raccolta poetica Canzuna di vita, di morti, d’amuri, ventiquattro componimenti scritti in dialetto siciliano con traduzione in italiano, brasiliano e inglese. L’esserci occupati del suo precedente libro di poesie Tempu, palori, aschi e maravigghi (2002) non può che disporci favorevolmente alla lettura dell’ultima sua opera, e ad esprimerci su di essa.
Si rileva innanzitutto che i testi – “…un corpus di ventiquattro unità liriche, senza titoli, legate le une alle altre da asterischi, che da segni di punteggiatura assumono il ruolo di silenziose cifre poetiche…” osserva il prefatore – appaiono sulla pagina uno di seguito all’altro senza soluzione di continuità, e siamo in dubbio se ascriverlo ad un’esigenza meramente tipografica o alla volontà, invece, di farli deflagrare in una successione quasi poematica. Il dubbio ci deriva dalla cifra poetica di Marco Scalabrino, dove è la parola ad assumere centralità e dignità, prima del verso: composto in prevalenza di pochi sintagmi distanziati, in quasi tutte le poesie, da una o più interlinee in bianco.

Una scelta indubbiamente controcorrente rispetto a molta poesia contemporanea ipertrofica ed espressionista. Parola essenziale, dunque, ed equilibrio armonico tra silenzio e suono, dentro una scrittura che appare prevalentemente denotativa e, non di meno, acuta, dal segno forte. Sciogliendo il dubbio iniziale, propendiamo perciò per la prima ipotesi, in merito alla disposizione di più testi nella medesima pagina. Al pari dei versi, i componimenti di Marco Scalabrino paiono infatti rivendicare una loro prossemica, una doverosa armonia, un’equa alternanza di vuoto e di materia.

Da osservare che la centralità della parola, qui, ben si combina con l’uso del dialetto la cui maggiore capacità di aderenza al mondo descritto – interiore e fisico, e di accensione evocativa, rispetto alla (sopraggiunta, e aggregante) lingua italiana – non sembra essere estranea a una vicenda etimologica che radica nella storia della comunità d’appartenenza dell’autore – al pari di tutte le altre comunità di ogni luogo e tempo – in quel serbatoio di immagini, di esperienze, di prospettive che la parola dialettale, con immediatezza, sa richiamare. Dialetto che tutto può raccontare: con le parole di tutti, sui sentimenti e i pensieri di tutti, che tutti intendono. Che tutti lega e racchiude, nell’Uno d’un ancestrale grembo.

Avevamo osservato, con riferimento alla precedente raccolta, che “La scrittura di Marco Scalabrino è sobria, essenziale, vi s’intuisce un lungo e severo lavoro di selezione e sottrazione: per sapienza artigianale, indubbiamente, ma anche per ideale rispondenza con la sua concezione della vita e del far poesia, con la verità profonda, intuita, delle cose descritte. Il poeta non ricorre ad artifici, non cerca l’effetto facile, non segue correnti, mode, scuole, coi loro maestri ed epigoni. La sobrietà dei versi sembra rispecchiare quella del poeta, il suo forte senso etico…” L’autore, nel suo ultimo lavoro, ha certo confermato alcune caratteristiche di stile – in particolare, l’essenzialità acuminata del verso e la brevità dei componimenti che, osserva giustamente Carmelo Lauretta, “…non significa dissolversi o esaurirsi del sentimento nel percorso degli sviluppi, ma tendere alla sintesi dei circuiti espressivi e cogliere solo i nuclei più vitali e più appaganti del travaglio di pensieri e di effetti.” Nel contempo, però, c’è parso di cogliere non trascurabili aspetti di novità nella sua scrittura: nella direzione di una maggiore semplicità e aderenza alla vita e alle cose, ricorrendo ad espressioni proprie del linguaggio orale e gergale (Nna li jidita di na manu/fazzu lu paru e ziparu//grattu li facci niuri/cu lu bianchettu//e cui acchiana acchiana/mi ni futtu//e vinciu[1]; oppure, E parru./Senza fila./E mi ni mpipu./Chi ssa sputazza/a mia mi fa campari/e arrunzu li bulletti nna lu stipu)[2] che, forse, meglio favorisce nel verso la registrazione di pensieri ed emozioni (Com’è chi addivintai na fitinzia//un nturdu/un nuvidduni/un sceccu//na fezza vili di tussi e catarru//unu/chi fa sulu/strunzati?[3]; oppure, A st’ura//su’ stranii, celi/ciauri/quarteri//e scogniti, facci/palori/fatti.[4]). Il poeta assai spesso s’interroga sull’umana condizione (Vita Morti./Beni Mali./Diu Omu//E muntarozzi d’aschi/bummuli di lastimi mi vuscu/siddu appena m’allanzu/a ‘mmanziri ssi nsulti.[5] oppure Sudu.//Arrè ssa porta chiusa.//Aspittannu[6]), con una forte tensione etica che lo porta a guardarsi e giudicarsi con occhi impietosi (Com’è chi addivintai na fetenzia//un nturdu/un nuvidduni/un sceccu//na fezza vili di tussi e catarru//unu/chi fa sulu/strunzati?[7]

Non deve sfuggire, infine, di questo lavoro, la perizia artigianale che nulla lascia al caso, compresi gli effetti fonici dei versi (vedasi, ad esempio, l’uso accorto delle rime – prendendo a caso proprio l’ultima poesia citata – (celi/…/quarteri ; facci/…/fatti) e la presenza di allitterazioni (assillabazioni) A st’ura//su’ stranii, celi/ciauri/quarteri//e scogniti, facci/palori/fatti).

Tirando le somme di questa disamina, non possiamo che concordare con Gianmario Lucini, quando definisce questa poesia “poesia sociale”; qui “l’orizzonte sociale è infatti costantemente presente”. Poesia sociale, però, preme aggiungere, non per l’uso retorico del linguaggio, con conseguente, possibile fuoriuscita dallo statuto espressivo (da quello, per lo meno, che tale viene ritenuto), ma per un rigore sempre più raro in questa società distratta e spregiudicata; un rigore che Marco Scalabrino intende testimoniare con tutte le sue forze, con l’esempio della sua, qui, disvelata fragilità (non dissimile dalla nostra), della sua scrittura severa, della sua vocazione a offrirsi, anche attraverso le traduzioni, alla generalità dei suoi simili, alla platea silente dei lettori che – una volta varcato l’arduo ingresso alla Poesia – bellezza vuole, ma non solo.
Giovanni Nuscis – Sassari, 16 maggio 2006

* «Per gentile concessione di ItaliaLibri (www.italialibri.net )»

[1] Sulle dita di una mano/faccio il pari e dispari//gratto le facce nere/col bianchetto//e chiunque prevarrà/me ne infischio// e vinco.

[2] E parlo./Senza fili./E me ne frego./Sarà perché il consumar saliva/mi fa sentire vivo/e ammasso le bollette nello stipo.

[3] Come ho fatto a ridurmi//un balordo/un minchione/un inetto//un ricettacolo di tosse e catarro//uno/buono solo a fare/stupidaggini?

[4] Oggi//mi sono estranei, cieli/odori/quartieri//e sconosciuti, volti/parole/fatti.

[5] Vita Morte./Bene Male./Dio Uomo.//E torme di farneticazioni/e nuovi quesiti m’aggrediscono/se timidamente mi provo/a penetrare questi dilemmi.

[6] Sudo.//Dietro questa porta chiusa.//Aspettando.

[7] Come ho fatto a ridurmi//un balordo/un minchione/un inetto//un ricettacolo di tosse e catarro//uno/buono solo a fare/stupidaggini?

Marco SCALABRINO -CANZUNA DI VITA, DI MORTI, D’AMURI. Samperi Editore – Castel di Judica, 2006. Euro 5,00 – pagg 74.Prefazione di Carmelo Lauretta.Commenti di Gianmario Lucini e Nelson Hoffmann.Traduzione in brasiliano di Nelson Hoffmann, in inglese di Gaetano Cipolla, in italiano di Maria Pia Virgilio con Flora Restivo

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