Sabir. Semicronaca di una notte bianca

di Angelo Maddalena

Il pezzo che segue è la parte conclusiva di un testo più lungo che Angelo Maddalena, quando vuole e quando può, mi manda via email dai posti dove si trova. Chi credesse che inventa si ricreda. Non c’ero, ma so che ha scritto esattamente ciò che è successo. Angelo ha scelto di fare il cantastorie, viaggia in autotop, indossa rigorosamente sandali (d’inverno con le calze di lana), campa con quello che raggranella nelle serate, vendendo i suoi cd e qualche libro tutto suo o dove a pubblicato con altri.
Se non credete a me, credete a Matteo B. Bianchi. Indovinate un po’ chi era il ragazzo siciliano conosciuto sul tratto Bologna-Milano? (ma.mi.)

SABIR

Sto girando per alcune città d’Europa con pretesti vari: un professore di antropologia sociale mi ha detto che io non sono “tirato” per gli studi e le attività sedentarie, ma per scrivere e viaggiare, quindi mi sono messo in cammino.

Avevo dei contatti in Francia, dove un editore mi aveva scritto che potevo provare a tradurre un romanzo in italiano, ma io quel romanzo non l’avevo letto neanche in francese, però ci andai lo stesso, anche perchèlì vicino ci abitavano persone che conoscevo ed ero andato a trovarli; di editore neanche a parlarne, non lo andai a trovare nemmeno, inutile prendersi
in giro, andare in Francia per me era bello in sé, mica per l’editore, però pensai di spedirgli le cose che avrei scritto in quei giorni.
Non ci andai anche perchè abitava molto più lontano rispetto a dove abitavo. Poi andai a Berlino, dove avrei dovuto cantare, la cosa era saltata, ma a me piaceva andarci e quindi partii lo stesso; ritrovai un po’ di ragazzi di due centri sociali che avevo incontrato qualche mese prima, la prima volta che ero andato a Berlino; e anche Vincenzo, che mi aveva proposto di cantare ma poi non era stato possibile, però mi aveva detto che mi avrebbe ospitato e gli avrebbe fatto piacere che andassi…

Poi tornando in Italia mi fermai qualche giorno a Firenze, da dove, in una mattina di un sabato di settembre, trovai un passaggio per Roma con un autobus di una banda musicale che avrebbe cantato per le strade di Roma durante la Notte Bianca.

A un certo punto avvertii una certa irritazione, a metà strada, tra Firenze e Roma. Non sapevo da dove venisse, fatto sta che la musica che veniva dalla radio e le voci che si mescolavano, mi producevano dentro quella sorta di irritazione… Senso di colpa, cose del genere che venivano a galla, vai a vedere cosa… Ci eravamo fermati ed erano saliti sull’autobus una donna e un uomo, forse facevano parte anche loro della banda e, a differenza della maggior parte dei componenti che abitavano vicino Firenze, loro abitavano dalle parti in cui ci eravamo fermati, o forse erano passeggeri fuori programma come me? Questa possibilità mi scombinò un po’ di certezze… Avevo chiesto alla prima faccia capitatami a tiro se c’era posto per i nuovi arrivati (per me anche nuovi odiati) e la faccia di donna giovane e stronza aveva detto <>, e io lo avevo preso come un affronto: ma guarda sta stronza! Come si permette? Di scherzare con i miei sentimenti?
Tutta sta confidenza! L’avrei ammazzata subito, se non fosse che la donna che era entrata prima si era già seduta in uno dei pochi posti liberi rimasti, e l’uomo, non l’avevo più visto, forse qualcuno lo aveva gettato fuori dall’autobus, me lo auguravo, meno siamo meglio è, e che cazzo, tutta sta gente che si infila negli autobus tanto per!

Avevo poche certezze per quel viaggio: zero potere di acquisto, zero monete né cartemonete addosso, zero appigli per dormire la notte… ma la notte sarebbe stata bianca, quindi ero a cavallo… E poi mi aspettava Lorena, che mi aveva detto che potevo esporre le mie cose al banchetto del centro sociale dove presentavano, quella sera, un libro… Il giorno prima l’avevo chiamata dicendo che non sarei andato, che non ne valeva la pena e cose così, poi la sera stessa avevo incontrato
Nella e Leonardo che mi avevano detto che sarebbero andati a Roma l’indomani, a cantare, avevo chiesto se avevano posto, loro avevano detto che andavano in autobus con la banda e forse c’erano posti liberi, sarei dovuto andare fino al punto stabilito dal quale sarebbe partito l’autobus, e come andava andava, o salivo a bordo o rimanevo a terra.

Non avevo richiamato Lorena, in quelle condizioni di incertezza avevo reputato più coerente andare all’avventura.
L’irritazione poteva provenire anche dalla scolatura della bottiglia di vino che mi aveva porto Leonardo e io avevo ingollato e dal sorso di bevanda arancione con dentro qualche sostanza poco definita che aveva preparato Ernest, un ragazzo di origine croata seduto nel posto accanto alla porta anteriore dell’autobus. La ragazza seduta accanto a me non aveva voluto assaggiarla: <>, aveva detto con l’aria di conoscere i “giochetti” di Ernest.

Mi ero seduto accanto a lei perchè era uno dei pochissimi posti liberi rimasti. Lei mi aveva fatto qualche domanda e poi aveva cominciato a parlarmi del senso del lavoro che ci fa scoprire i nostri lati deboli e quelli forti, del fatto che non si può fare un lavoro creativo perchè il lavoro è pieno di regole e di tempi rigidi, che puoi fare un’attività creativa “a parte”, prima devi avere un lavoro che ti permette di pagarti le attività da fare nel tempo libero, svincolato dai soldi, e che lei aveva questo bisogno e lo estendeva a tutti gli altri; erano discorsi che mi ero sentito fare un miliardo di volte, da gente dell’età di mio padre ma anche da miei coetanei, o, ancor peggio, da ragazzi che ancora dovevanolaurearsi e sembrava che gli avessero tolto il cervello e gliene avessero montato uno coi discorsi programmati: ogni volta che ti si presenta una certa situazione devi dire queste parole, automaticamente e meccanicamente, sembrava che gli dicesse il programmino che scattava ogni qualvolta si muoveva una levetta o un qualcosa del genere.
Lei però era una ragazza che mi sembrava interessante, o meglio, mi era sembrata interessante a primo acchito, e anche mentre faceva sti discorsi, non è che mi sembrava meno interessante, ma cercavo di capire, di entrare dentro il percorso che l’aveva indotta a parlare in quel modo: delusioni, percorso di studio, genitori, problemi sentimentali e di altro genere che avevano provocato una convinzione e una esigenza rigida di “regolarizzare” il proprio percorso e quello di chi sembrava deviare da quelle linee guida. Aveva iniziato a parlare partendo dalla domanda che mi aveva fatto, del tipo <>. Era come se il mio rispondere vagamente, tipo <> avesse scatenato una sua rezione “regolatrice” e repressiva di ogni forma possibile di pensiero non rigidamente legato ai modelli lavorativi e abitativi sviluppattisi negli ultimi trenta o quarant’anni dalle parti dell’Europa Occidentale e dintorni.

Io ero partito un po’ così, stanco di spostamenti repentini delle ultime settimane, poco fruttuosi in fatto di pecunia ma rigeneranti per gli incontri e gli stimoli, non avevo neanche tante autoproduzioni da proporre, la voce non si era ancora rimessa per cantare ma avevo portato lo stesso la chitarra e il pannello con la storia illustrata da cantare e cuntare.
La ragazza accanto a me emanava un odore un po’ stantìo, poco armonioso e dolce, era ciò uno specchio delle parole che aveva detto e del tono che aveva usato nel dirle?..Eppure prima quando l’avevo vista per la prima volta, che eravamo passati da casa sua per andare insieme fino al punto di incontro
e di partenza, mentre si vestiva aveva un’aria più interessante. L’odore che emanava non sapevo se veniva dal suo corpo o dai suoi capelli, non riuscivo a decifrarlo né ad associarlo ad altre immagini e altre fonti di odore, era un odore selvatico, ma ristagnato. Avevo scoperto che aveva una rivista di spiritualità orientale e la leggeva a sprazzi, fortunatamente ci eravamo fermati a un’area di servizio e avevo preso un po’ d’aria, devo aggiungere che sull’autobus i finestrini erano di quelli ermetici e non funzionava (o non era acceso) il sistema di condizionamento dell’aria.

Volti e corpi
Appena scesi dall’autobus avevo iniziato a disegnare alcuni corpi che andavano dall’autobus verso il bar, al che avevo dato nell’occhio e mi erano arrivati un po’ di <> e <> da volti femminili e maschili interessati e stupiti dalla mia presenza.
Mi chiedevano se facevo parte della banda, io rispondevo <> e che ero insieme a Nella e Leonardo, ed era come tanti anni fa dicevo che ero figlio di mia madre e di mio padre e mi facevano entrare o mi guardavano con sguardi riconoscenti in certi luoghi vicini o interni a quelli in cui sono nato e vissuto più o meno volontariamente per diversi anni.

Davanti la porta d’ingresso del bar mi ero fermato e un tipo della banda mi aveva chiesto qualcosa, al che avevo iniziato a schizzare il suo volto sul mio quaderno con la penna nera. Poi avevo incrociato il ragazzo della bevanda “misteriosa” che mi aveva detto il suo nome e mi aveva proposto di andare ad abitare con lui in un podere dove avrei pagato centocinquanta euro al mese, e la cosa mi intrigava, anche se non sapevo da dove prendere i soldi. Sarebbe stata un’esperienza estremamente nuova, da rapportare ad altre possibilità più o meno provvisorie e demonetizzate, tipo un periodo invernale presso Nella e Leonardo in cambio di una mano nei lavori di ristrutturazione della casa

Un altro ragazzo che mi chiese cosa facevo (“scrivo e ogni tanto pubblico”, avevo risposto) mi disse che conosceva una ragazza che lavorava per una Agenzia editoriale di Firenze, poi mi disse che conosceva un ragazzo che aveva pubblicato un romanzo a sue spese, Blu Light Lisboa, lui (l’autore) si chiamava Alessandro Angeli, al che gli dissi che lo avevo comprato e già letto e prestato
La cosa più coerente sarebbe stata abitare in una casa in cambio di lavoro. Anche se l’idea dell’affitto mi faceva apparire ai miei occhi più regolare, ed era anche un buon prezzo. Mi arrovellavo quindi sul da farsi, ne avrei parlato con Alex che mi stava ospitando in quei giorni.

SABIR SABIR MA UNNI MINCHIA SIR???

Seduto su pietra, anzi, calcestruzzo umido di recente pioggia, guardo la rara terra nuda
e rare foglie poi arriva il 781 che va a Testaccio, mi lascia a un certo punto, io devo andare a Santa Cacilia, al Sabir, il locale non lo conosce neanche Dio, perché su cinquanta passanti interrogati la risposta è sempre <> o tutt’al più <>, che è ancora più straziante per il mio senso dell’orientamento già di suo scoglionato; Santa Cecilia Dio la conoscerà, ma non i suoi figli “turisti e romani che nonostante l’acquazzone” , come recita il notiziario Mobi in collaborazione con ATAC “si riversano per le vie di Roma nella Notte Bianca.”

I sandali neri che mia sorella mi ha comprato meno di tre mesi fa per il suo matrimonio sono sempre meno neri e sempre meno da matrimonio. L’acqua dei marciapiedi e dei ciottoli rende le sottosuole simili a piccoli sci e i piedi nudi ne fanno esperienza diretta: sciare a piedi nudi a Roma, sci d’acqua per giunta, a gratis!

Dove mi lascia il 781 c’è vicino il Villaggio Globale, non ho più la forza di cercare, con sta cazzo di chitarra e di pennello che mi porto dietro, ho bisogno di posare e riposare. Mi addentro nel villaggio, tutto contornato di mura basse di similcemento, c’è una specie di parchetto interno, costeggio il muretto fino all’entrata, in fondo alla strada; entro nel locale coperto, mi sento abbastanza depurato dalle numerose pressioni delle piante dei piedi sui sandali e di questi sulla terra, il sangue circola e il cuore pulsa con ritmi concilianti, disintossicanti.
Non ricordo chi ha scritto che la stanchezza del camminare a piedi depura il corpo e lo spirito da influssi nocivi. La prima cosa che faccio è cercare un ripiano per depositare i miei “colli”,
in una stanza grande ci sono due donne e un uomo che hanno l’aspetto (loro e la stanza) di chi organizza e ospita prove di attività teatrali, non mi cagano più di tanto, neanche quando chiedo se sanno dov’è il Sabir, manco a parlarne, cerco di individuare un tavolo dove poggiare i colli, decido
di portarmeli dietro fino ai tavolini che intravedo qualche metro più avanti, ci arrivo e mi siedo, dopo aver appoggiato i “bambini” in un angolo tra una sedia e una parete.. Sul tavolo ci sono bicchieri e bottiglie vuote. Mi arrivano le note e la voce graffianti da uno spazio chiuso qualche metro più in là del mio tavolo. Un ragazzo seduto insieme ad altri a un tavolo vicino al mio sembra conoscere qualche strofa del brano che stanno cantando, almeno così mi sembra, anche se non sento le sue parole, vedo il suo labiale, potrei dire che sta cantando in playback! Vado a vedere i cantanti e mi ritrovo una stanza con in fondo il palco e tre giovani che cantano e suonano, non c’è quasi nessuno nella sala, tranne due cani che ciondolano, una bottiglia di birra vuota e un sacco vuoto di patatine buttati per terra, addossate alla parete della porta d’ingresso stanno alcune sedie e non più di dieci persone sedute, compresi, forse, i tecnici del suono. Tra il desolante e il grottesco, ma fa bene al cuore, vedere qualcuno che si sgola fottendosene di chi e soprattutto quanti sono quelli che lo ascoltano.

Torno a sedermi, non prima di aver chiesto a due ragazzi dalla pelle color cioccolato che gestiscono il bar, se sanno qualcosa del Sabir
<>, mi chiede uno stralunato. <>
Mi risiedo al tavolo di prima, due ragazzi si siedono a un tavolo vicino, uno di loro, biondo di carnagione e con un’andatura un pò rigida, soprattutto da una parte del corpo, mi chiede se posso aiutarlo a trovare del fumo. Ha occhi ed espressione intelligente e interessata a scoprire quello che lo circonda, e colori nordici: capelli corti e biondi e occhi azzurri. Io dico che non saprei in che modo, chiedere, indicare qualcuno che potrebbe avercelo, mi fa capire lui, io dico che potenzialmente sì solo che non fumo, non conosco i giri, lui mi fa capire che gli basterebbe fare un giro insieme, per cercare qualcosa, io gli dico che sto cercando il Sabir, se vuole può venire con me, lui dice “perchè no?” e si rivolge in una lingua che mi sembra tedescofona al collega, un tipo smilzo dai colori castani (occhi e capelli) e neri (pantaloni e maglietta), con un paio di occhialini che lo fanno somigliare un pò ad Harry Potter e un pò a Massimo Zamboni dei CCCP. Gli dico che è un locale arabosiciliano (fa sempre trendy l’arabo-siculo!) e il tipo smilzo e occhialuto la prende bene, ummmh, è come se gli avessero proposto una canna spirituale, “buono”, dice, con il suo accento teutonico, “andiamo”.
Rare gocce ci cadono addosso ma quasi non ce ne accorgiamo.

<>, chiedono i due.
<>, rispondo aggiungendo altri Cristi e Madonne per esprimere la mia ansia di trovare un posto che mi hanno detto essere da queste parti ma che non riesco a rintracciare manco nelle teste della gente che da queste parti ci passa centomilavolte al giorno. Loro ridono di gusto, nonostante il loro bilinguismo. Al che chiedo da dove minchia vengono e che ci fanno qui, e mi rispondono che sono in giro un po’ da turisti, e vengono da Bolzano.
<>, rispondo alla domanda di prima, rievocando il “comandante zapatista” e il prete Angelicamente Anarchico Spiego ai ragazzi che dobbiamo chiedere per Santa Cecilia, intanto loro incalzano: <>. Dico, sempre più vago, che da qualunque parte andiamo dovrebbe andare bene perchè non dovremmo essere lontani. Il biondo si mette a chiedere col suo accento e il suo passo un po’ da sciancato “per Santa Cecilia”. E’ da immaginarselo: un tipo grazioso, ma quando chiede è sorprendente, ti guarda fisso e mezzo sorridente mentre tu dovresti rispondergli di qua o di là, ma la risposta è non so allora lui ti guarda come a dire “sforzati tanto così”.

L’acqua sotto gli sci rinfresca, lucida, rigenera passando attraverso i pori dei fortunati e intelligenti piedi nudi.
Dopo un pò di queste scene troviamo qualcuno che ci indica un numero (di tram) e un nome (una piazza) che dovrebbero farci sentire più vicini a Santa Cecila. Prima di arrivare al tram attraversiamo una piazza, che riconosco essere il punto X, quella in cui ero seduto prima, sulla terra, anzi, sul calcestruzzo di un muretto, a guardare la rara terra nuda e i fili e foglie d’erba. Ritrovo il Cristo di Dio del locale brasiliano che avevo contemplato prima, e l’incrocio dove scivolano sgargianti nel loro arancio metallico i numeri “8”, il 170, il 780 e il 781. Siamo tra Testaccio e Trastevere, più o meno, per un po’ ho considerato un riferimento Testaccio perchè convinto
che Lorena avesse detto <>.
Decido che Testaccio, Santa Cecilia e Sabir rappresentano tre prove lampanti dell’inesistenza di Dio! Il numero è otto, il nome della piazza Sonnino. Ci arriviamo e cominciamo a chiedere, finalmente Dio si incarna in una coppia di mezza età e ci suggerisce una direzione e un vicolo, per cui dovremmo arrivare nei pressi della Santa, ma per il Sabir Dio non si pronuncia. Altri svicolamenti e richieste al poliziotto municipale che indica Santa Cecilia ma non registra il Sabir (Dio illumina i santi ed è già tanto!), iniziamo a pensare che Sabir sia solo una parola, che forse in Marocco dà il nome a qualcosa di etereo, di invisibile, spirituale, una forza sommersa e potente
o qualcosa del genere. Alla fine arriviamo, sono tutti vestiti di nero i gestori: una presenta un abbigliamento tra teen ager dark e maestrina alternativa, un’altra più corpulenta (avrà qualche anno in più della prima), con un’espressione alla Joker dell’ultimo film (o il penultimo?) di Batman, propone un’abbigliamento a fasce, pantaloni larghi e una fascia in testa, schiena semi nuda, tutto
rigorosamente nero, ogni tanto balla a ritmo di musica vagamente araba, e accenna, con un certo savoir faire, mosse orientaleggianti.
Lo spazio è piccolo, la gente poca, quindi clima raccolto, che piace subito ai due “banditi metropolitani” bolzanesi. Ci offrono arancini, cous cous squisito, tutto autoprodotto, la jokeressa provoca la mia attenzione in un modo che trovo lievemente insolente, la studio per capire se lo fa perchè prova piacere a stuzzicare le persone, perchè è fatta così o perchè ce l’ha con me. La terza ipotesi è la più improbabile perchè ci siamo sentiti pochissime volte e i contatti li ho avuti con Michele, che sembra molto discreto, e l’impressione si accentua quando i loro modi di guardare e di parlare sono confrontabili direttamente.

Osservo un pò il locale, il biancore delle pareti di gesso e paglia di cui mi aveva tanto parlato Gianni, che mi aveva messo in contatto con Michele e che mi aveva mostrato le foto del suo lavoro compiuto. L’anno prima Gianni mi aveva anche proposto di andarlo ad aiutare per fare quel lavoro da manuale e da gessista, “dovresti solo impastare e stendere gesso alle pareti”, mi aveva detto. Poi lui era andato da solo, e mi aveva mostrato le foto dell’inaugurazione.
Dalle foto mi era sembrato più grande lo spazio. Per esempio immaginavo più lunghi i ripiani con i cuscini sopra, pensavo potessero sedercisi almeno quindici persone per ogni fila, ma forse quindici persone si possono sedere in tutte e due le file, e magari stringendosi.

L’anno scorso Gianni mi aveva messo in contatto con Michele e quasi ci era scappato il concerto del cantastorie siciliano (cioè io) per la Notte Bianca al Sabir. Amici di Roma avvisati, <>, <>, “col piffero” che sono andato, per miracolo ho risparmiato i soldi del biglietto perchè tre giorni prima Michele mi aveva fatto sapere che non aveva avuto gli accrediti della SIAE, addio Sabir, addio Roma, addio Notte Bianca. Quindi capite cosa potevo provare quando la Jokeressa mi diceva <>, <> e cose del genere, anche se alla prima battuta
aveva aggiunto “adesso devi mangiare arancini di un anno” e io avevo colto l’arancino al balzo.

A un certo punto mi appoggio sui cuscinetti e mi abbiocco, la musica in sottofondo e le poche presenze, la luce soffusa, conciliano e invitano le membra a riposarsi, poi anche a distendersi, mi addormento per un pò di minuti (può essere anche mezz’ora), ma, non soddisfatto, quando mi sveglio, mi distendo per lungo (non c’è più nessuno seduto ai tavoli nè sugli scalini-divani accanto a me) e tento un’integrazione, un pò mi sento she potrebbero farmi notare che non è il caso, ma non c’è nessuno, e l’asfalto calpestato e gli sballottamenti sono lì a dirmi che ne ho un gran bisogno, se considero che ancora di strada e di sballottamenti ne dovrò macinare….A un certo punto sento una mano poggiarsi sulla mia spalla, è quella di Michele, che mi ricorda dolcemente che potrebbe arrivare gente. Mi alzo di scatto e mi scuso, mi ricompongo, con gesti simili a quelli di uno che è colto in fallo, cerco di spiegare la situazione, dico <>, Michele dice che non c’è problema e mi conceda senza guardarmi perchè sta lavando alcuni bicchieri.

PIOVE SEMPRE MENO

Piove sempre meno, tanto che la Jokeressa e i ragazzi si sono messi fuori a parlare. La donna che metteva la musica, l’unica bionda delle donne rimaste, inizia smontare casse mixer e cose di questo tipo, Michele sembra deciso a chiudere ben prima dell’orario segnato sulla locandina affissa sulla parete accanto alla porta d’ingresso: “Dalle 19,00 alla 6,00 Sabir per notte Bianca”, c’è scritto in grande al centro, sopra e sotto immagini e parole che spiegano lo stile e gli “ingredienti” del Sabir.
Lunchcafè, ma anche Sud cafè, degustazione di cibi dolci e salati arabi e siciliani, un pò più in grande c’è scritto che è possibile “gustare il vino siciliano”, è fatto bene, colori, grafica, parole non troppo retoriche.
Tra la porta e la locandina ci sono la jokeressa che parla con Klaus (il biondo) ed Ernest (il nero), tutti e due quando si presentano a un italiano dicono che puoi chiamarli Claudio ed Ernesto, come se i loro nomi fossero impronunciabili e non diversi di una o due lettere dal corrispondente italiano, sembra che lo facciano per creare buon umore, ma non si capisce bene, magari è uno scrupolo bilinguistico.
Parlano del più e del meno, riesco a cogliere qualche oggetto delle argomentazioni: all’inizio si ragiona di arte, partendo da Leonardo – da quello che riesco a capire sembra che lei si rivolge ad Ernest con una vaga supponenza che traspare dal tono della sua voce, accentuata dal fatto che lui sembra non conoscere o conoscere poco Leonardo; poi di anarchia (Ernest è di area libertaria, me lo ha fatto intendere prima parlando di certe situazioni) lei si atteggia a conoscitrice sperimentatrice piuttosto velleitaria dichiarando di sentirsi anarchica e altre cose tipo atea o anticlericale, lui sembrava guardarla come uno che ha alle spalle una certa consapevolezza che inizia a confrontarsi e che vuole aprirsi ma fino a un certo punto; a un certo momento, non so con quale passaggio, arrivarono sul terreno etnico e linguistico, e lei si dovette buttare sul versante “domande indiscrete o quasi”, del tipo “ti senti più italiano o più tedesco?”, lui risponde non so cosa e lei puntualizza che in Italia si parla solo l’italiano, queste dovette offenderlo perché poi, quando ce ne andammo (ma anche prima, mentre salutavamo si vedeva che aveva l’occhio umido) qualche lacrima gli rigò il volto. Lo disse anche a lei prima di andarcene, e cioè che gli aveva dato fastidio qualcosa che lei aveva detto… Prima di andarcene anche la Dj bionda si avventurò in qualche affondo dialettico, esprimendo, mentre riempiva il portabagagli di strumenti, qualche opinione sull’anarchismo: <>. Ce ne andammo felici e piangenti!

IL DOPO SABIR, o anche E ANCORA NON E’ FINITA

Ernest mi raccontava per sfogarsi la dinamica della situazione. La cosa che lo offendeva di più era il fatto che lei si dichiarava anarchica ma faceva razzismo linguistico, come diceva lui, per il resto gli andava bene tutto: il locale, l’atmosfera e anche, tutto sommato, il resto dei discorsi…Poi mi chiese se non era un problema se parlava in tedesco con Klaus, hai voglia, gli dissi, anzi, mi piace così mi ricordo di tutti i miei compaesani costretti a imparare il tedesco nelle fabbriche della Germania e per un attimo mi ci immedesimo.

E iniziarono a dirsi un pò di cose nella loro seconda (o prima?) lingua. Ci fermammo alla fine di una strada che dava su uno stradone famoso di Roma ma non ricordo come si chiamasse, forse eravamo, o mi piace pensare che fossimo, a Castel Sant’Angelo. Mentre sorseggiavamo vino bianco da una bottiglia che loro avevano nello zaino una macchina sfrecciò a qualche metro e ci buttò addosso tutta l’acqua di una mega pozzanghera formatasi tra il marciapiede e la corsia a noi più vicina. Lanciai un urlo selvatico e metropolitano con la bottiglia in mano, cercando di schivare il più possibile, ma servì a poco. Non me ne arrivò addosso tanta, ma alcune goccione mi colorarono di nero i pantaloni blu scuro, anche loro cercarono di indietreggiare, poi ci facemmo una risata e continuammo camminare sulla sinistra. Ernest propose di scendere le scale che portavano verso il fiume dove c’era un largo marciapiede percorribile a piedi o in bicicletta, io approvai un po’ tentennante, KlausClaudio non sembrava molto convinto, stavamo iniziando a scendere ma io cominciai a risalire sospinto indietro da una ventata di puzza di piscio. Cosicchè riprendemmo la strada maestra. Direzione: i giardini del Pincio, dove alle sei avrebbero cantato e suonato due o tre pezzi da novanta tra cui Lindo Ferretti, che loro conoscevano e avevano visto cantare vicino a Bolzano, in un posto a due mila metri di altitudine. Erano quasi le cinque, e quasi cinque chilometri ci separavano da Lindo e il resto della compagnia. Dopo un pò di sorseggi, risate e camminamenti mi misi a chiedere alla gente che passava se ci dava un passaggio, dopo due domande la terza arrivò a buon fine: una giovane coppia con una uno verde ci caricò e ci fece bruciare un paio di chilometri, da lì continuammo a piedi.
Mi ricordai di quello che mi aveva detto una ragazza giorni prima: <>. Io non lo immaginavo, non immaginavo niente di eccezionale, però ero curioso, più che altro di vedere e ascoltare l’ex CCCP e CSI dal vivo.

Arrivammo in Piazza di Spagna e ci dissero di salire e andare sulla sinistra. Ernest faceva prove di fuga, nel senso che ogni tanto non lo vedevamo dietro di noi e dovevamo aspettarlo. Avevamo incontrato due ragazze, una di loro era siciliana e io le avevo detto che non era la prima volta che la vedevo. Lei era ubriaca persa e le sue pupille azzurre navigavano bellamente dentro la parte bianca dell’occhio che non so come si chiama (cornea?). Mi disse <>, io dissi <>, lei disse <> e poi cominciammo a salire la scalinata insieme. Cominciò a parlare con Klaus e sembravano reciprocamente interessati. Arrivammo al Pincio e Ernest si era perso, le due ragazze andarono avanti e io e Klaus decidemmo di aspettare ancora un pò. Dopo un pò decidemmo di entrare, e che Klaus avrebbe riprovato a chiamarlo sul telefonino (che d’altronde era quello suo perchè Ernest aveva sulle spalle lo zaino di Klaus). Ora però pioveva notevolmente.

Dopo il cancello del Parco del Pincio, a poche centinaia di metri, era montato il palco con una specie di volta bianca, un tendone o qualcosa del genere. C’erano assiepate teste e ombrelli che non permettevano, se non a chi fosse fortemente motivato, di avvicinarsi al palco. Quello che potevamo fare era sentire le voci di alcuni personaggi di cui intravedevamo a mala pena le teste, oltre e al di sopra di ombrelli e altre teste. Ci dissero che erano Aldo, Giovanni e Giacomo. Io avevo le gambe che non le sentivo più. Dovevo sedermi, condannando i pantaloni a farsi garanti del culo, visto che i posti a sedere erano tutti occupati e c’era qualche basamento di calcestruzzo sotto i lampioni che invitava a sedersi, mi misi un giornale sotto e mi appollaiai, appoggiato un o’ al basamento un po’ al lampione, provai anche a chiudere gli occhi. Klaus ogni tanto mi diceva a che punto erano le ricerche di Ernest.
Dopo un po’ mi svegliò, mi disse che Ernest non lo aveva trovato, ma che doveva andare. Ci salutammo, rinnovò l’invito ad andarlo a trovare a Vienna, che mi avrebbe ospitato. Il cielo aveva assunto la colorazione azzurra e tenue del primo mattino, aveva superato la fase biancorosata. Prima di alzarmi avevo sentito dei tamburi, o tammorre, che rullavano, lentamente, con un ritmo blando, un colpo ogni manciata di secondi. A un certo punto voci e fischi si erano alzati dalla folla, forse impazienti di sentire l’inizio o di vedere la star arrivare, che non so se era arrivata, perchè davo le spalle al lampione e al palco. Dopo un pò mi alzai e mi avvicinai al palco. Il ritmo dei tamburi stimolava un certo desiderio di muoversi, di ballare, in modo blando. C’era una donna che ancheggiava al centro del palco, e altre donne raccolte in fila quasi dietro di lei, ma più alla sua sinistra, non le vedevo quasi, mi accorsi bene di loro quando lei le presentò, dopo che aveva cantato: <>, urlò alla folla con una voce lievemente rauca e affannata.

La canzone che cantava iniziava con la parola femmene ripetuta lentamente un pò di volte. Mi ricordai di Chiara e del nostro viaggio iniziatico a Otranto, l’estate di un anno prima, la notte della Taranta a Torre Paduli e io che volevo andarmene perchè anche quella notte era di quelle che non dormi e stai a ciondolare come un coglione tra bottiglie di birra e gente che balla la pizzica, e Chiara mi rimproverava che ero troppo insistente, sembravo un vecchio. E forse aveva ragione. Anche quella volta mi ero appoggiato per terra e mi ero addormentato verso le cinquecinqueemezza.

Riconobbi da lontano e dalla voce la cantante: giorni prima avevo letto che lei reputava importante il movimento del bacino quando cantava, e che una cantante americana di cui non ricordo il nome, una di quelle che hanno fatto la storia del rock, ecco, quella sì che muoveva il bacino molto bene, diceva Gianna Nannini in una breve intervista che avevo letto credo su Repubblica. Ora Gianna Nannini era lì, e avrei voluto dirle che effettivamente non avevatutti i torti, ma era troppo lontana, quindi continuai ad ascoltare e a osservare i suoi ancheggiamenti. Ma soprattutto avrei voluto chiederle: ma Lindo Ferretti ve lo siete mangiato? Mi stupì il fatto che la Nannini cantasse una canzone in dialetto salentino, non conoscevo il suo lato etnico. Di Ferretti sapevo, tra le altre cose, che l’anno prima era stato insieme a Sparagna uno dei tre conduttori della Notte della taranta a Melpignano, e ciò bastava. Sospettai che la Nannini fosse una trovata di marketing della Notte Bianca, ma avrei dovuto informarmi sul suo percorso. Alla fine lei presentò anche altri cantanti e il direttore artistico, Vincenzo Sparagna, l’unico nome, oltre a quello di Ferretti, che ricordavo, tra quelli che avevo letto.
Dopo qualche ora i giornali parlavano di Notte strabiliante, nonostante la pioggia, successoni, cantantoni, Veltroni, milioni.E io mi chiedevo come cazzo facessero, sti maledetti giornalisti, a scrivere e pubblicare parole di eventi praticamente ancora neanche conclusi, poi pensai che dovevano avere qualche potere magico, e che io, neanche a farmi il sangue sarei riuscito a scrivere (e pubblicare su paroledisicilia.it) qualcosa di quella notte nel giro di qualche settimana. Niente, ne conclusi, ero troppo indietro, e dovevo iniziare a pensarci seriamente, al mio rimanere indietro volontario, dovevo cambiare strategia, affidarmi a un agente, e, soprattutto, evitare di andare in giro, a Roma, di notte, con gli sci d’acqua.

RINGRAZIAMENTI
Ringraziamenti vanno, oltre che a tutti i componenti di Bandao per avermi condotto fino a Roma con il loro autobus, a Filippo e Laura, e a Cinzia, la compagna di posto, a Mario, Rita e e Angela del Sabir, a Gianni Ruggeri per avermici indirizzato, a Mauro Mirci e a Luciana Licitra per avermi motivato a completare e curare la stesura del racconto (il primo lo fa con tutti i miei racconti di viaggio e mi chiede di spedirglieli, la seconda lo ha fatto con questo racconto in modo spontaneo, caloroso e gratuito). Grazie!
Chiedo scusa a chi, poiché non citato, potrebbe essersi sentito in qualche modo trascurato.

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