Tre su tre

di Antonio Musotto

Ermes picchiava sulle corde del basso elettrico. Lui non era del tutto convinto che la sua vita stesse imboccando la direzione giusta. Andò fuori tempo, gli altri si fermarono e lo guardarono, arrossì.
Lui stava ancora pensando a come, nella cantina della casa della madre di Monica, avesse avuto una deprecabile eiaculazione precoce, sporcandole la t-shirt nera con il logo dei franz ferdinand .
Ermes rivedeva con orrore nella sua testa il film della reazione violenta e isterica di Monica.

Andò di nuovo fuori tempo. Il chitarrista alzò le braccia e disse “cazzo”, il batterista lanciò le bacchette contro la saracinesca del garage, lui staccò il jack dall’amplificatore, mise il basso elettrico a terra, disse agli altri “cazzo, non ho testa “, si rimise il giubbotto di jeans, alzò la saracinesca, uscì dal garage, si avviò senza riflettere verso la casa di Monica.
Sentì un brivido nella schiena, sarà l’umidità pensò, e cercò di spegnere il videoclip di Monica furibonda nel suo cervello.

Due isolati dopo, girò a sinistra, dirigendosi verso la propria casa, dove suo padre lo aspettava sveglio ogni sera, collegato alla bombola di ossigeno portatile, e gli chiedeva ogni sera la stessa cosa: “dove sei stato”. Lui aveva sempre la solita risposta “in giro”, poi aiutò il padre a trasferirsi dalla poltrona in soggiorno alla camera da letto, collocò la bombola nel vano del comodino e gli rimise la mascherina, regolando il flusso al minimo.
Lui pensò con sollievo e con terrore che una di quelle notti sarebbe rimasto solo. Guardò la stanza come se non l’avesse mai vista, memorizzò la posizione dei soprammobili, le fotografie in bianco e nero della madre morta, le ciabatte sformate del padre sul tappetino scendiletto, la sua vestaglia marrone sullo sgabello.

Laura lavorava ad una delle casse del grande magazzino. Una assistente staccava le etichette e disattivava la protezione antifurto della merce. Lei passava i cartellini sotto al lettore ottico, controllava sul monitor che le quantità corrispondessero, chiedeva conferma alle clienti.
Cercava di non farsi distrarre dal sottofondo di musica commerciale che si diffondeva dagli altoparlanti sul soffitto, detestava il fatto che l’assistente canticchiasse sottovoce alcune di quelle canzoni.
Poi diceva ad alta voce l’importo, ed attendeva che le clienti le dicessero in che modo volevano pagare. Nel frattempo l’assistente preparava una busta di carta con manici di corda marrone, e restava in attesa che il pagamento andasse a buon fine prima di imbustare il tutto.
Il contratto prevedeva che Laura e la sua assistente sorridessero alle clienti quando ricevevano il pacco dalle loro mani.
L’assistente di Laura era una immigrata che emanava un insopportabile afrore, e non faceva nulla per mascherarlo.
Laura credeva che quell’odore le avrebbe causato un tumore, e teneva nascosta nell’armadietto dello spogliatoio una lettera indirizzata al capo del personale. In questa lettera lei chiedeva di essere spostata ad un altro reparto, o che venisse sostituita la collega dalle ascelle mefitiche.
Pochi giorni dopo che Laura aveva scritto la lettera, era stato emanato un nuovo regolamento per la condotta del personale del grande magazzino, in cui veniva chiaramente detto che comportamenti a sfondo razzista o discriminatorio per religione o idee politiche avrebbero potuto comportare il licenziamento dei dipendenti.
“non sono razzista, è che a quella puzzano le ascelle da morire” pensò Laura prima di conservare la lettera nel suo armadietto.
Aveva anche acquistato un deodorante, ma temeva che regalarlo alla collega ne avrebbe provocato una reazione inattesa, un rapporto ai superiori, e conseguenze che non voleva neanche immaginare.
Laura premette il tasto della cassa automatica che autorizzava l’emissione dello scontrino, lo mise nelle mani di una cliente, sorrise e disse grazie come da contratto, trattenendo il respiro mentre l’assistente, per la diciannovesima volta in quel pomeriggio, alzava il pacco oltre il bancone per consegnarlo alla cliente.

Ho la testa dura, ed ho studiato, si disse Natalia prima di aprire la porta. Durante i suoi soggiorni in quel paese straniero per i corsi di specializzazione e per i congressi aveva più volte espresso un desiderio interiore, sopprimendolo subito dopo.
Sono una donna straniera, non riuscirei a lavorare qui, si diceva per giustificare il fatto che non voleva programmare un trasferimento.
Poi, un’estate, aveva conosciuto un uomo, con lui era trasferita nel paese straniero: tutto andò per il verso giusto, tranne il fatto che quell’uomo, più grande di lei di parecchi anni, non la amasse per niente.
Aprì la porta dello studio. Gli odori raggiunsero disordinatamente le cellule olfattive di Natalia. Eugenolo, vernice fresca, sapone liquido alla lavanda, disinfettante per ferri chirurgici.
Natalia indossò il camice verde, sfilò le scarpe col tacco, fece scivolare i piedi dentro dei calzari da sala operatoria, sterilizzati il giorno prima.
“Forse è una precauzione eccessiva”, le aveva detto un collega a cui aveva descritto per filo e per segno le procedure di sicurezza che lei aveva standardizzato .
Sono una professionista, non improvviso niente, pensò Natalia entrando nella stanza dove c’era la poltrona odontoiatrica e il riunito con tutti gli attrezzi.
“Il paziente delle nove e trenta sta ritardando”, le disse la segretaria dall’interfono.
Natalia ripassò la procedura, non saltò nessun passaggio.
Riandò con il pensiero al pomeriggio prima.
Sfiorò il braccialetto portafortuna che lui le aveva regalato.
“è un filo sottile, di scarso valore, ma ti aiuterà a non dimenticarti di me” aveva detto lui il pomeriggio del giorno prima.
Lui glielo aveva annodato al polso e poi l’aveva baciata.
Lei non pensava che avrebbe potuto succedere, ma non fece niente per impedirglielo, non fece niente per impedirgli di portarla nella camera di un hotel del centro dove lui soggiornava per una sola notte, di passaggio in quella città estranea per tutti e due.
So cosa voglio, sono una donna forte, aveva pensato Natalia mentre dentro l’ascensore che saliva al quattordicesimo piano lui le sorrideva e le teneva la mano.
Non fece niente per impedire che lui spegnesse la luce e facesse scendere lentamente la zip del suo abito di Chanel, il suo preferito.
Natalia non si sorprese quando gli sfilò la maglietta e gli abbassò i jeans, non si sorprese quando sentì tra le mani il suo sesso caldo, non si sorprese quando lui la chiamò per nome prima di venire dentro di lei.
Poi si rivestirono, lui la invitò a cena, lei non voleva tornare tardi a casa, il tempo procuratosi con la scusa che aveva inventato per allontanarsi stava per terminare.
“Ci rivedremo?” disse Natalia e subito dopo si pentì di quello che aveva detto, lui non rispose, le annodò il braccialetto al polso e la baciò.
Il paziente delle nove e trenta entrò nella stanza alle nove e quarantotto, diciotto minuti di ritardo, pensò Natalia nascondendo il braccialetto sotto la manica del camice.

Palermo, 4 febbraio 2006. antonio musotto.

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