I sei re

Antica leggenda

L’impero era immenso e una lunga pista lo percorreva tutto per il lungo, toccando tutti regni che vi appartenevano. Il grande castello dell’Imperatore si trovava al di là del sesto regno, un centinaio di miglia oltre esso, e si narrava che fosse un’edificio mirabolante, ricco di marmi, metalli preziosi, legni rari. Le sue cucine erano vastissime e producevano cibi raffinati. Le sue camere da letto erano comode e sontuose. Ma erano le biblioteche l’autentica ricchezza del palazzo imperiale. In esse era conservato il sapere di questo e dell’altro mondo, racchiuso in tomi rari e accessibili solo a coloro che potevano dimostrare di possedere il sigillo delle tre saggezze, quella del cuore, quella dell’anima e quella della paura.

Ma di tutto questo i sei re, chiusi nei loro castelli, non sapevano nulla. Amministravano gli affari dei rispettivi regni, dispensavano benefici a chi ben operava e pene severe a chi violava le leggi dell’impero e del regno. Conoscevano poco di quel che esisteva al di fuori del loro regno, ma di ciò non si preoccupavano, perché non vi è sollievo più grande, per le ansie umane, che l’ignoranza.

C’erano sei re, dunque, e i loro castelli si trovavano lungo l’interminabile strada imperiale. Un giorno il primo re dovette decidere su un caso di giustizia delicato: un figlio aveva chiesto al padre di permettergli studi di medicina, giacché aspirava a recare bene e salute agli altri sudditi del regno, ma il padre, un commerciante molto ricco e influente, desiderava che il figlio proseguisse l’attività paterna e continuasse a farla fiorire. Il desiderio del giovane era commendevole, e volto al bene comune, ma quello del padre, oltre che legittimo e nell’interesse dell’impresa commerciale e dei suoi dipendenti, godeva dell’autorità conferita dal ruolo di capofamiglia. E nell’Impero, non solo nel regno del primo re, quella dell’autorità era la regola fondamentale, sulla quale si fondavano tutte le altre. Il primo re avrebbe dovuto emettere sentenza in favore del padre, ma la sua coscienza gli diceva che un medico entusiasta può fare il bene di un regno ben più che un commerciante costretto a essere tale.
Espresse quindi tutti i suoi dubbi in una lunga lettera che sigillò e consegnò a un messaggero a cavallo. “Vai”, gli disse, “e fa in modo che questo messaggio giunga all’Imperatore”. Il messaggero partì al galoppo e, per lunghi giorni percorse la pista che conduceva al secondo regno. Vi giunse stremato e fu condotto al cospetto del secondo re, al quale disse ciò che sapeva: doveva consegnare un messaggio sigillato all’Imperatore, era urgente e importante. Null’altro. “Sono in condizioni tali da non poter riprendere il cammino se non tra molte ore, e con un cavallo ben riposato”, disse. “Non preoccuparti”, rispose il secondo re, “invierò un altro messaggero. Tu riposa”. L’incarico fu affidato e il nuovo messaggero lasciò il secondo regno di gran carriera. Giunse al terzo regno dopo una settimana, esausto e senza fiato. Il suo cavallo era ridotto in condizioni pietose. Condotto al cospetto del terzo re, anch’egli riferì del messaggio sigillato che doveva recare all’Imperatore e lo disse importante, senz’altro, se il primo re aveva deciso che dovesse giungere alla capitale dell’Impero. I re non si rivolgono certo all’Imperatore per questioni da poco!
Così, anche il terzo re prese in consegna il messaggio e l’affidò a un nuovo messaggero. E questo messaggero partì al galoppo e stette sulla pista per il quarto regno per settimane. E lo stesso fece il quarto re. Quando il messaggero giunse al cospetto del quinto re erano trascorsi mesi dal momento in cui il messaggio era partito. Il quinto re osservò il plico, sempre perfettamente sigillato, ma stropicciato e macchiato dal sudore dei messaggeri che l’avevano custodito nella giubba. “Cosa mai avrà avuto il primo re da comunicare all’imperatore?”, disse. Soppesò il plico sulla mano. Non sembrava molto pesante, ma il primo re lo aveva giudicato importante tanto da inviarlo al loro sovrano supremo. E ben cinque messaggeri avevano rischiato la vita per trasportarlo. Il quinto re ricordò di aver conosciuto il primo re, molti anni prima. Gli era apparso come un giovane sovrano colto e di buoni sentimenti. Mai avrebbe messo a rischio la vita di un messaggero per motivi che non lo meritassero. Mai avrebbe importunato l’Imperatore per ragioni futili. E lui, il quinto re, aveva motivo per rischiare la vita di un altro messaggero, di un buon cavallo? La strada per la capitale dell’impero era ancora lunga, l’Imperatore lontano. Gran tempo era trascorso da quando ne aveva ricevuto notizie. L’impero era vasto, le notizie lente, ogni fatto, passando di bocca in bocca, si trasformava in leggenda. La parola scritta, più esatta, più attendibile, quando giungeva, era sbiadita, l’inchiostro cancellato a larghi tratti, la carta lisa, talvolta stracciata tanto da recare testi leggibili solo in parte. E quello stesso plico che teneva in mano: chissà se l’Imperatore sarebbe stato in grado di leggerlo. E quand’anche il messaggio fosse stato integro, quanti anni aveva già compiuto l’Imperatore? Era ancora vivo l’Imperatore? Da quanto tempo non ne leggeva gli scritti? Da quanto tempo non ne sentiva la voce? Tanto da dubitare di averne mai letti gli scritti. Di averne mai sentita la voce.
Esisteva davvero l’imperatore?
Pianse. Aveva dedicato tutta la vita a servire l’Imperatore. E se l’Imperatore non esisteva più, o non era mai esistito, che senso aveva avuto la sua vita?
Così chiamò il Gran Cancelliere. “Ti affido il quinto regno. Parto. Devo vedere l’Imperatore. Fammi sellare un buon cavallo e riempi le bisacce di provviste per un lungo viaggio”.
Il quinto re partì all’alba. Custodiva il messaggio del primo re in una tasca interna della giubba. “Consegnerò questo messaggio personalmente”, si diceva, “e verificherò che l’Imperatore esista. E se esiste, come spero, gli chiederò di mettermene a parte, perché troppo ha provocato la mia curiosità”. Così si ripeteva mentre il cavallo galoppava senza sosta e gli alberi scorrevano veloci al lato della interminabile pista per la capitale dell’Impero.
Galoppava. Il quinto re s’aggrappava al pomo della sella e puntava le gambe nelle staffe. Il suo destriero sembrava infaticabile: gli avevano sellato il miglior cavallo delle sue scuderie. Nulla di meno per il quinto re.
Le ore passavano e il sudore colava dal collo del cavallo e si faceva schiuma. Le ossa del re scricchiolavano, perché la capacità di provare curiosità può mantenersi inalterata, nel tempo, ma gli anni trascorrono inesorabili per il corpo. Quando fu stanco, lui prima del cavallo, si fermò e riposò brevemente. Senza accendere un fuoco e dormendo solo il poco necessario. Poi ripartì. Percorse numerose miglia e fece di nuovo sosta. E ripartì. E fece sosta. E ripartì. Ogni nuova partenza era sempre più difficile, più faticosa; le gambe rigide, la schiena dolorante. L’unico pensiero divenne condurre a termine la sua missione. I giorni passavano e il suo pensiero era concentrato solo sullo scopo del viaggio. Passarono le settimane e lo scopo divenne arrivare. Passarono i mesi, e lo scopo divenne viaggiare. E poi rimanere aggrappato alla sella. E poi esistere. E poi nemmeno quello.

Alla porta della capitale del sesto regno giunse un viandante stracciato nelle vesti e malmesso nel corpo. La barba era lunghissima, annodata, un covo di parassiti. L’uomo si aggrappava alla sella di un cavallo scheletrito e ansimante, prossimo alla morte, e non voleva smontare. Resisteva alle esortazioni delle guardie restituendo frasi incomprensibili e urla terrorizzate. I soldati, tuttavia, intuirono che in quel fantasma vivente ardeva una fiamma d’orgoglio e nobiltà non comune, che poteva albergare solo nell’anima di un personaggio altolocato: un titolato, un principe, se non un re.
Così fecero giungere notizia al sesto re di ciò che accadeva, ed egli si recò alla porta.
Quando il viandante lacero e smunto lo vide comparire davanti a se, lo fissò per lungo tempo e, quindi, smontò finalmente da cavallo e mosse alcuni passi incerti verso di lui.
“Ecco”, disse con voce roca. “Ecco”, ripetè, mentre porgeva qualcosa al sesto re.
E questi prese ciò che il viandante gli porgeva e vide che si trattava di quel che restava di una busta di carta che recava un sigillo. Ma questo era rotto e non si distingueva il blasone di chi l’aveva apposto. E la busta era vuota.
“È vuota”, disse il sesto re al viaggiatore. “Sai cosa conteneva?”
Ma il messaggero gli restituì uno sguardo vuoto. Sorrideva, ma i suoi occhi erano una finestra sull’oblio.
“Ecco”, ripetè ancora, porgendo le mani vuote al sesto re.

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