Acqua, cavalli e noci

di Angelo Maddalena

Il brano che segue è tratto da “Selvatico e coltivato” ed è pubblicato per gentile concessione dell’autore e della casa editrice Stampa Alternativa.

Mi piove addosso, sulla testa…
Miriadi di gocce bussano sul sacco di un materiale estraneo agli elementi naturali che tengo sulla testa… Però sulle braccia arriva, scende, scivola, rinfresca…
È la mia prima volta, la prima volta che faccio l’amore con l’acqua che cade dal cielo, qui alle Vagne, dietro di me una cavalla che trasporta un sacco di noci appena raccolte e un uomo nato almeno almeno quarant’anni prima di me, ma qui il tempo sembra dissolversi… Salgo verso la casa, le tegole di cotto e il bianco del gesso mi sorridono, fino a qualche mese fa non sapevo che esistesse questo spazio vitale, da qualche mese non so se sia possibile abitare lontano da qui per troppo tempo senza avvertire una sensazione di svuotamento interiore.

Mi guardo indietro, vedo l’uomo con qualcosa in testa per ripararsi dall’acqua che cade, rivedo le sue mani che strappano un involucro di materiale estraneo agli elementi naturali per poterlo utilizzare come cappuccio o “scappulara”, come si dice da queste parti, rivedo me e lui che raccogliamo noci e, quando inizia a piovere, ci ripariamo dentro una casupola di pietre crude, uno spazio di pochi metri quadri, facciamo entrare la cavalla “ppi nun farla vagnari”, siamo noi tre, lo spazio chiuso dalle pareti non potrebbe contenere un altro cavallo, per quanto è stretto. La cavalla alza la coda e libera il suo intestino, la merda cade sui sacchi di materiale estraneo.
“Bbì sta disgraziata!”, esclama l’uomo. “Propriu ora aviva a cacari!”.
Anni prima questo stesso uomo aveva accolto me e due miei amici venuti da una grande città del nord, con una fionda tesa. Mi ero fatto riconoscere che ero del posto. Da allora era iniziata a farsi sentire dentro di me una voce sempre più forte, come un richiamo, un invito discreto ma pressante…
L’acqua che scorre dalla sorgiva e che “purifica i pensieri”, come dice Marilia che è venuta a trovarmi in questi giorni, le more ad agosto, le noci che raccolgo da terra quasi giorno per giorno, quelle che vedo, quelle che trovo, le ciliegie a giugno, le mele fra i rovi… era come se volessero trattenermi tutte le volte che venivo, poche volte e per pochi attimi, sufficienti a preparare il terreno per il ritorno che adesso è sempre più quotidiano, sempre più abitazione…
Continuo a salire, inizio a vedere la porta “allannata”, di legno rivestito di lamiera, di latta, di “lanna”… Dietro la casa, oltre la vallata che scende e poi risale, scorgo un mucchietto di case ancora abitate da pochi umani e qualche animale, le intravedo nell’aria piovosa, sembrano danzare fra gli alberi che le circondano; intravedo anche edifici isolati, masserie e piccole case disabitate e alcune diroccate, adesso la casa dove abito è a pochi passi, sento la terra bagnata sotto i piedi nudi – ho tolto le scarpe troppo inzuppate -, l’erba e alcuni rovetti innocui perché troppo piccoli oltre che bagnati. Quante volte visitatori increduli mi hanno invitato a mettermi le scarpe, preoccupati: “guarda che ti fai male!”. “E se ti infilzi una spina?”. E io a sentire il solletico, la vita sotto e dentro i piedi pervadermi e attraversarmi…

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