Certe volte vorrei

di Mauro Mirci

Hanno portato il nuovo espositore e il signor Nino mi ha sorriso. E’ stato un sorriso sincero, di quelli che si fanno a chi si è affezionati.
Il giorno che sono arrivato qui ero un punto interrogativo, un quesito al quale solo il tempo poteva rispondere. L’ultimo TSO era stato brutto. Mi aveva detto il brigadiere dei vigili urbani che gli infermieri avevano dovuto infilarmi la camicia di forza mentre mia madre piangeva e si copriva gli occhi. – A uno gli hai quasi staccato mezza mano con un morso – ha aggiunto.
Ricordo d’un tratto che rimangono da sistemare le gomme e le caramelle. L’espositore di libri e giornali, troppo alto, le copriva, così abbiamo deciso di spostarle dietro la cassa, accanto alle sigarette. Immagino le facce spaesate dei clienti quando cercheranno le Halls e troveranno invece i titoli del Corriere. Chissà se i loro occhi indugeranno sulle parole scritte oppure scivoleranno alla ricerca delle caramelle perdute.

Vendere anche libri e giornali è stata una mia idea. Lavoravo col signor Nino da meno di due settimane ed ero ancora in prova. Anche se era sempre gentile con me, ogni tanto lo sorprendevo a fissarmi con uno sguardo tra il dubbioso e il diffidente. Allora ho pensato che dovevo dimostrare di essere un bravo impiegato, uno che non sa solo svuotare i cestini. Una persona capace di dare davvero una mano, ecco.

Così, mentre spolveravo lo scaffale degli articoli da regalo, ho detto: – Signor Nino, lo sa che ci sono tanti suoi colleghi che vendono anche i libri e i giornali?
Lui stava studiando un elenco di fatture scritto fitto fitto. Aveva tirato gli occhiali da lettura sulla punta del naso. – Lo so – ha detto con voce piatta.
Ho ripreso a spolverare lo scaffale. Appena ho terminato ho iniziato a tirare fuori da uno scatolone le stecche di sigarette. Le accumulavo su uno dei ripiani alle spalle del banco vendita, in basso, sotto la cassa. Poi il signor Nino le avrebbe smistate nello scaffale, suddivise per marca e tipo di tabacco. Non sembrava avere dato molto peso al mio suggerimento. Ero imbarazzato; sentivo le orecchie diventare purpuree e facevo di tutto per non incontrare il suo sguardo.
– E’ piccolo questo locale – ha detto a un certo punto. Non so se avremmo dove mettere gli articoli nuovi.
Mi scrutava da sopra le lenti degli occhiali.
– Non so – ho detto. – Era un’idea così. Mi scusi.
Sono tornato al lavoro. Lui ha fatto: – Uhm…
Qualche giorno fa, il signor Nino mi ha detto: – Pensi ancora che dovremmo vendere libri e giornali?
Io ho fatto segno di sì con la testa. Lui ha sorriso.
– E dove dovremmo esporli?
Con il dito ho indicato tre palmi di spazio libero davanti alla cassa. Lui ha detto: – Uhm…

Assieme all’espositore, il tizio coi capelli rossi che porta i giornali ci ha lasciato anche due pacchi con altre pubblicazioni. – A te l’onore – ha detto il signor Nino con un cenno della mano.

In ospedale approfittavo dei cambi di turno degli infermieri per svignarmela dal reparto. C’era un momento in cui nessuno sembrava più badare ai ricoverati ed era possibile uscire addirittura dalla porta principale. Succedeva sempre. Spesso, mentre uscivo, sentivo smontante e montante che litigavano a voce alta. Una volta si sono picchiati. Io ne approfittavo sempre per scappare. In verità non erano proprio fughe. Quando mi avevano ricoverato la prima volta c’erano dei lavori in corso nell’ingresso del pronto soccorso e mi avevano fatto entrare da quello principale, dove c’era un piccolo bar che vendeva anche giornali e riviste. Di quel ricovero non ricordo quasi nulla, ma l’esposizione delle riviste si impresse nella mia memoria.
Durante le mie fughe andavo sempre là. Mi piazzavo davanti a quell’esposizione multicolore e rimanevo incantato a guardarla. Le prime volte fu il gestore del bar a chiamare il reparto; poi gli infermieri capirono che ogni volta potevano cercarmi lì. Pagherei per ricordare cosa pensavo. Ero così intontito dai sedativi che mi muovevo come in trance. Conservo il ricordo di me stesso mentre sfogliavo una rivista che parlava del mostro di Milwuackee: una specie di intervista e, accanto, alcune foto che la polizia aveva scattato nella sua casa.
Probabilmente fu la crudezza di quelle immagini a consentirmi di ricordarmele. Poi più nulla. Di certo arrivarono gli infermieri per riportarmi dentro.

Mi sembra di aver fatto un buon lavoro. Ho sistemato i quotidiani, immediatamente sotto le riviste, ancora più giù i pochi libri che il distributore ci ha lasciato. Il signor Nino mi ha battuto una mano sulla spalla e mi ha detto bravo.
L’ultima volta che mi hanno dimesso dall’ospedale mia madre non mi ha più voluto in casa. Quelli dei servizi sociali hanno detto: – O ti trovi un lavoro o vai in comunità. – Tecnicamente potevano farlo per via della faccenda della trielina, così mi sono dato da fare. Il medico del SERT è stato chiaro. – Si può passare la vita a farsi di eroina, ma di trielina no. Per bene che ti vada ci resti secco, sennò rischi di spappolarti i neuroni uno per uno e di passare il resto della vita come un vegetale. Già ora hai frequenti vuoti di memoria, giusto? – Annuii. Ma non è per questo che ho smesso. Lo stesso medico mi ha chiesto a quanti trattamenti sanitari obbligatori ero già stato sottoposto. Sapeva che ricordarmi i TSO mi feriva. Ero sballato di trielina, non pazzo. Odiavo vedere i vigili urbani sotto casa, il brigadiere che cercava di fare il mediatore tra me e gli infermieri. E mia madre piangeva sempre. Prima chiamava i servizi sociali, poi piangeva. Così ho deciso di smettere con la trielina.

Il signor Nino aveva un figlio. Sono venuto da lui perché lo sapevo, me l’aveva detto il medico del SERT. Suo figlio è volato da un balcone, si faceva di trielina anche lui. La trielina dà allucinazioni vivide e potenti. Chissà che ha visto. Ha scavalcato la ringhiera e si è buttato giù, senza un grido. Sono venuto dal signor Nino perché se non mi aiutava lui chi l’avrebbe fatto mai? Quando sono entrato la prima volta mi ha squadrato per un quarto d’ora. Mi ero ripulito: avevo infilato un paio di jeans puliti e una polo nuova per fare buona impressione.
– Sei quello del SERT? – mi ha chiesto.
– Sì – ho detto io.
– Quanti anni hai?
– Sedici.
Non ha aggiunto altro. Ha iniziato a spiegarmi cosa dovevo fare e come comportarmi. Mi chiedo sempre cosa gli abbia detto il medico di me. Lui mi ha sempre trattato in maniera corretta. Io faccio il mio lavoro, coi clienti buongiorno, buonasera e basta. Mi sono trovato una stanza per dormire. Mia madre non mi cerca più.
* * *
Abbiamo venduto tutti i giornali, ma poche riviste e nessun libro. Sono un po’ deluso.
– Non è andata male – dice il signor Nino. Io mi stringo nelle spalle. Lui mi sorride. – E’ stata una buona idea.
Ci guardiamo per un po’, imbarazzati. Io lo so che rivede in me suo figlio, per questo il medico mi ha mandato qui. Anche lui si rende conto che il nostro rapporto si basa su un duplice egoismo: lui padre che cerca di riscattare i propri errori, io figlio che cerca un nuovo padre. Ma va bene così. Almeno per ora va bene così.
– Posso prendere un libro? Lo riporto. – chiedo per interrompere il momento di imbarazzo. Annuisce. Prendo dall’espositore un libretto piccolo, con la copertina blu. Non leggo da anni. Prima della trielina leggevo sempre; poi, non so, è come se fosse cambiato qualcosa nella mia testa; come se le parole non andassero tutte al loro posto e le frasi provocassero reazioni impreviste. Però è strano, mi ha vinto un’inattesa sensazione di normalità e mi sono trovato quel libro tra le mani. Come un segnale che il passato sta svanendo lontano.

Ho scoperto che riesco di nuovo a leggere. Ci metto più tempo e per fissare il senso delle frasi devo leggere sottovoce, ma ci riesco. Nella mia stanza ci sono solo il letto, il comodino e un lume. Sopra il comodino una vecchia radiolina. Ogni tanto sento una fitta di emicrania, ma è il meno che dovevo aspettarmi. Il libro è un giallo ed è avvincente, oppure ho solo tanta voglia di perdermi nuovamente in un romanzo. Avevo dimenticato la sensazione inebriante di avventurarmi in un mondo che sembra reale ma esiste solo per finta. Tutta colpa di quei mal di testa. Arrivavano appena cominciavo a leggere. E’ cominciato a capitarmi verso i tredici anni. Un’emicrania terribile dopo le prime righe, mi sembrava di svenire. Ho smesso per quello. In ospedale non ho mai sofferto di emicranie, per quello che posso ricordare. Forse per questo mi sentivo attirato dall’edicola. Saranno stati i sedativi. Chissà le risate degli infermieri mentre me ne stavo imbambolato davanti ai giornali .

Il tizio entra verso le dieci. Avrà cinquant’anni e sembra sovrappeso, ma il suo passo è elastico e mostra un’espressione decisa. Mi è sembra di riconoscerlo, ma è una sensazione più che altro. Per il signor Nino è una faccia nuova invece, l’ho capito da come gli si rivolge. – Desidera? – Lui dice desidera solo ai turisti. Quello dice il nome di una marca di sigarette. Il signor Nino lo serve. Quello paga. Si sente lo squillo di un cellulare.
– Bì, chi cammurria sti cellulari – dice il cliente. Cerca in tutte le tasche, armeggia con i tasti, infine risponde a voce alta. – Pronto, chi è che rompe i cabasisi. – L’interlocutore non la prende bene: si sente che urla. Sembra una donna. – No Livia… – tenta di dire lui. Lei chiude. Il signor Nino e io sorridiamo imbarazzati, ma il cliente non sembra imbarazzato per niente. Si accorge dell’espositore e inizia a cercare tra i libri. – Non avete niente di Simenon? – chiede. Il signor Nino non capisce nemmeno di cosa parlasse. Rispondo io, visto che i libri li ho sistemati uno per uno. – No. Possiamo ordinarlo se vuole.
– Che, vuoi babbiare? Io manco lo so se domani passo ancora di qua.
* * *
In questi ultimi giorni il signor Nino sembra preoccupato perché, a quanto pare, capitano alcuni fatti strani in paese. Ogni tanto passa il tipo di Simenon per le sigarette. Dopo le prime volte il signor Nino si è fatto strano. Mi fa: – la prossima volta cerca di farlo rimanere di più.
Io ci ho provato, ma niente: entra, ordina le sigarette e via. Mi ha detto che è della polizia, un commissario addirittura. Non sono laureati i commissari? Eppure parla quasi sempre in dialetto, e dev’essere di fuori perché un dialetto così, a Pizzo d’Elsa, non l’ho sentito mai.
– Di dove sarà il commissario? – chiedo al signor Nino.
– Ma quale commissario – risponde. – Quello è un buffone. Sta pure combinando un sacco di guai.
Io ci rimango male, perché a me sembrava una brava persona. Il signor Nino, allora, apre il Giornale di Sicilia sulla cronaca di Enna e mi indica un titolo. “Montalbano sono!” E più sotto: “A Pizzo d’Elsa un misterioso personaggio si spaccia per il protagonista dei libri di Camilleri e improvvisa arresti nella cittadina con tanto di manette.” Leggo che il tizio compare e scompare a sentimento. Ogni tanto arresta qualcuno e lo consegna ai vigili urbani, visto che a Pizzo il commissariato non c’è. Ogni volta i vigili rilasciano tutti, pure i delinquenti veri, perché, insomma, non è che si può essere arrestati da un commissario finto. Mi metto a ridere. – E’ proprio fuori – dico, ma me ne pento immediatamente perché mi assale il ricordo di cosa vuol dire essere trattati da pazzi e subire l’umiliazione dei sedativi e della camicia di forza.
Ho ripensato a quando ero ricoverato. La memoria procede per salti, aggrappandosi ai pochi episodi durante i quali ero abbastanza lucido per ricordare qualcosa.
Vedendomi triste il signor Nino mi chiede: – Che hai?
– Niente – dico io. Comincio a riordinare i giornali. Oggi il distributore ci ha portato i fumetti. Visto che ho terminato il giallo, ne prendo uno per leggerlo stasera.
* * *
Sono stato dimesso per una serie di coincidenze. Capitarono quei fatti e dovettero chiudere il reparto. So che furono fatti molto brutti e poco altro, perché mi tenevano sempre sotto sedativi. Ricordo che passai davanti alla stanza degli infermieri ed era tutta rossa. C’era una striscia rossa pure sul pavimento: andava verso la stanza accanto, dove c’era il frigorifero per le medicine. Ricordo poi che c’erano carabinieri da tutte le parti, con le armi spianate e le facce sconvolte. Fu uno sgombero veloce e tranquillo: eravamo tutti più o meno sedati e ci lasciammo condurre come pecore verso l’uscita. Vidi anche infermieri e medici, ma erano visi che non riconoscevo. – Dove sono i nostri infermieri? E i medici? – ho chiesto a uno. Non mi ha risposto. – Via via – mi fa. – Tutti fuori da questo scannatoio.
Nella confusione mi trovai fuori dall’ospedale con le mie cose in una busta di plastica e le scarpe slacciate. Non sapevo dove andare.
Ogni tanto qualcuno mi chiede ancora dell’ospedale, ma ricordo poco. Ricordo poco di tutto, immagino sia uno dei danni provocati dalla trielina. Ho vissuto per un po’ come un barbone in una casa diroccata, poco fuori dal paese. Sniffavo ancora trielina, ero quasi sempre sballato, spesso non ricordavo chi ero e dove mi trovavo. Vivevo su un altro mondo allora, un mondo di immagini sfocate e distorte, non necessariamente reali. Non m’importava di niente. Un giornalista che aveva trovato il mio nome nelle liste dei ricoverati venne per intervistarmi. Mi chiese dell’ospedale. Gli dissi dei carabinieri, della striscia rossa per terra, della stanza degli infermieri, ma lui non sembrava soddisfatto. Allora gli ho detto perché ero ricoverato e mi ha lasciato perdere.
Poco tempo dopo tornai da mia madre. Ero fatto di trielina e non so cosa dissi o cosa feci. Vennero a prendermi da casa con la camicia di forza. Dopo, mi presero in custodia i servizi sociali, e il medico del SERT mi disse… Ah, ma forse questa cosa l’ho già detta.

Certe volte vorrei vivere in un mondo diverso, pieno di visi sorridenti, di persone gentili che non urlano se sbagli. Mio padre mi urlava sempre quando ero piccolo. Mia madre gli diceva che non ero come gli altri e non era colpa mia se ero nato così, ma mio padre non si calmava e diceva che lo facevo impazzire, che non ne poteva più di tutta quella gente che andava a trovarlo per colpa mia. Mi tolse i fumetti. Stracciò ogni fumetto che c’era in casa e impedì a mia madre di comprarne altri. – Non ce la faccio più – urlò un giorno. – Dobbiamo farlo visitare. – Mia madre piangeva. Litigarono. Io li osservavo in silenzio. Cominciai a piangere anch’io, e mentre piangevo sentivo un dolore pulsante alle tempie. Loro urlavano e il dolore cresceva. Quando non riuscii più a sopportarlo urlai pure io. Dovettero portarmi al pronto soccorso. Le emicranie tornarono spesso. Non riuscii a leggere più. Mio padre se ne andò. Mia madre cadde in depressione. Io scoprii la magia della trielina.

* * *
Mi annoio molto. Il dottore mi aveva preannunziato che quando ci si libera da una dipendenza il peso della noia aumenta.
– E’ lo stesso per chi smette di bere o fumare – ha detto.
Continuo a comportarmi bene. Il signor Nino pare contento. Ogni tanto penso a mia madre, ma cerco di farmene una ragione. Forse, più avanti, mi lascerà tornare da lei.
Ho lasciato perdere i fumetti e iniziato un nuovo libro. I fumetti non mi piacciono più come una volta; quelli dei supereroi, poi, mi sembrano veramente noiosi. Sto leggendo una storia di fantascienza scritta da un russo; ma non l’avevano inventata gli americani la fantascienza? C’è questo professore che inventa un raggio capace di accrescere la velocità di moltiplicazione cellulare. Per una serie di circostanze, però, si trova a irradiare uova di pollo, mentre in un pollaio irradiano uova di rettile.
Mi addormento col libro sul petto.
Mi risveglio.
Accendo la radio. In un notiziario nazionale parlano di Pizzo d’Elsa.
Ascolto.
Che storie assurde, sarà uno scherzo.
Spengo.

* * *
Ripenso a stamattina.
Il commissario mi stava davanti. Un lungo taglio gli attraversava la fronte. Sanguinava molto, il rivoletto rosso era colato sino al colletto della camicia e lo aveva macchiato. – La quistione è seria assai – ha detto.
In silenzio gli ho teso le sigarette. Lui ha pagato. – Le serve altro? – ho chiesto alludendo alla ferita. Lui stava contando il resto. – No – ha detto. – Due pacchetti sono anche troppi.
– La quistione è seria assai – ha ripetuto. – Assai assai. – Fino a che si trattava di fare i conti con quel pazzo in calzamaglia, tutto a posto. Ma ora, con queste lucertole cresciute, la faccenna di fece dilicata. Mi sento sperso, come a un picciliddro.
Ha acceso una sigaretta. Davanti all’entrata della tabaccheria è cominciata la confusione. Non ho resistito alla curiosità: ho fatto il giro del banco e sono corso alla vetrina. Anche il signor Nino è venuto fuori dal retrobottega. Vedendo il commissario ha esitato, ma la curiosità ha vinto anche lui.
– Che succede? – ha detto.
– Guardi – ho risposto io indicando fuori. Lui ha spalancato gli occhi. L’Uomo Ragno lanciava ragnatele contro un serpente gigantesco. “Un boa costrictor”, ho pensato riconoscendolo.
Riconoscendolo?
– Bi, chi camurria. Di nuovo qua sono? – ha detto il commissario. – Certe volte vorrei cangiare mestiere. Dedicarmi all’agricoltura, alla sana vita dei campi.
Deve essere stato in quel momento che ho capito. Quella frase la conoscevo. Allora, mentre il commissario bestemmiava perché come sempre aveva lasciato la pistola in macchina, mi sono messo a correre verso casa.
– Fermo, dove vai? – mi ha gridato dietro il signor Nino. Il boa si è girato verso di noi.
“Speriamo che il commissario trova la pistola” ho pensato. Ed ecco che aveva la pistola in mano e sparava al boa, mentre l’Uomo Ragno copriva di ragnatele tutti e due.
– Torna, dove vai? Torna – continuava a gridare il signor Nino, e sembrava che volesse anche gridare il mio nome, però non lo faceva. Io stavo quasi per fermarmi ma mi sono reso conto che non mi aveva mai chiamato per nome, e nemmeno lo avevo mai incontrato fuori dalla tabaccheria. Mentre correvo ripensavo al mio nome e nemmeno io riuscivo a ricordare quale fosse. Come se mi fossi disabituato a usarlo o non ne avessi mai posseduto uno.

Il letto della mia camera ammobiliata sembra reale. Sento il materasso attraverso la tela dei jeans e tocco le lenzuola stazzonate. Provo a ricordare come sono giunto qua e non riesco. Chi è la padrona di casa? Quanto pago d’affitto?
Guardo il comodino senza cassetti. Decido di provare. Su un foglio di carta scrivo: “Guardo il comodino coi cassetti.” Rileggo. Osservo il comodino: ora ha i cassetti. Accanto a me, sul materasso, Il ladro di merendine con la sua copertina blu e Le uova fatali di Bulgakov, in edizione economica, aperto alla pagina dove Persikov dice: “Un anaconda… Un boa constrictor! Dio Mio !” Per terra un fumetto della Marvel.
Appena tornato a casa ho cercato la vecchia agenda dove avevo deciso di scrivere le mie storie, tanti anni fa. L’unico oggetto che ho sempre portato con me. Il signor Nino è lì dentro. “Il signor Nino aveva un figlio. Sono venuto da lui perché lo sapevo”. Il racconto era lungo qualche pagina ma non l’avevo mai completato. Troppo noioso questo signor Nino capace solo di volermi bene come a un figlio e vivere dentro a una tabaccheria-edicola. Che non pronunciava mai il mio nome.
Guardo il soffitto. Cerco indizi che mi consentano di collocarlo in qualche storia che ho letto, ma sono troppo confuso. Esploro ogni ricordo e scopro che la mia vita sembra composta da fatti essenziali e significativi. Non sembra esserci traccia dei piccoli fatti quotidiani, quelle noiose costanti della vita che è superfluo raccontare. Cerco di ricordare l’odore della trielina. Non ci riesco. Ritento. Mi sembra di ricordare la sensazione di un odore penetrante, di un alito chimico soffocante. Osservo le mie mani, le loro piccole imperfezioni, le minuscole rughe delle impronte digitali. Saranno mie queste mani, oppure di un personaggio che non ricordo, letto chissà quando, accoccolato in una angolo nascosto della mia mente?
Di che storia sono il personaggio?

Note
TSO sta per Trattamento Sanitario Obbligatorio.
SERT sta per SERvizio Tossicodipendenze

Aggiungi ai preferiti : permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *