Le tazze

di Missy

Mia madre guarda sempre le tazze in Beautiful e mi dice:
“Vorrei proprio sapere cosa bevono gli americani dalla mattina alla sera in quelle tazze”.
Si, perché in Beautiful c’è sempre qualcuno con una bella e robusta tazza colorata in mano: si alzano, si siedono, baciano, scopano, tradiscono, si sposano, divorziano e partoriscono sempre con la tazza in mano.

Adesso vorrei che mia madre potesse vedermi andare in giro per i corridoi, le stanze del mio dipartimento, sedermi, salutare, parlare al telefono, sorridere e andare alle riunioni con la mia bella tazza californiana tra le dita, colore arancio caldo, di fattura messicana, proprio come in Beautiful.
Decidiamo strategie di acquisto, se aprire o chiudere accordi col Met, avviare una mostra o restaurare una scultura, ma non possiamo far nulla senza la nostra bella tazza decorata in mano, piccolo trofeo psicologico da esibire, disegno delle singole personalità, tratto distintivo del proprio carattere.

Elegante estensione del proprio corpo, è come una torre di difesa, una propaggine di quello che vogliamo dimostrare di essere. E sul tavolo delle riunioni sembra di vedere piazzate tante roccaforti l’una contro l’altra, con l’apparente inganno di credere di trovarsi ad una chiacchierata tra amici a colazione, con biscottini, tisane e aromi caldi e vaporosi.

La tazza del mio boss è forse la più bella: il dipinto di un bellissimo fondoschiena maschile. Lei è bionda, ricchissima, parla di milioni di dollari, accarezzando davanti a tutti questa bella tazza pesante, girandola tra le dita, portandola alle labbra, sorseggiando di tanto in tanto e parlare di progetti dispendiosissimi con quell’aria che fa tanto Sharon Stone, e quell’inevitabile, calcolatissima, splendida risata femminile che sconvolge l’ordine delle cose. Ridere in quel mondo, valutando il momento esatto in cui inserire una nota di depistaggio durante una riunione di menti maschili-categoria peso massimo, equivale al parto strategico di Brooke tra le braccia di Ridge: smorza le difese, azzera i conti, spiazza il nemico. Conquista e ammalia.

Ma la sua tazza è qualcosa che mi distrae fortemente. Civetterie di donne. Invidie parallele scorrono tra le carte che ci distribuiamo. Anzi, l’invidiosa sono io. La riunione impazza su toni internazionali e io mi impunto su una sola cosa: la sua tazza. Gliela strapperei dalle mani e la porterei in bocca, con qualsiasi tipo di caffè dentro. Mi sento un po’ malata nella testa.
E allora calcolo margini di manovra, occasioni di furto, spio secondi di distrazione, misuro attimi di posizionamento occasionale: la tazza abbandonata fumante come rivoltella sul tavolo del Boss.

Oggi la ruberò. Potrei corrompere il solito nero alla sicurezza del secondo piano, quello più ciccione e disponibile al sorriso di una siciliana in California. Le persone col cartellino giallo non salutano mai, ma io passo sempre davanti al desk con un’aria da cinematografo, e lui si commuove tutto. Come faccio la scema io da queste parti non la fa nessuno. Oppure potrei attardarmi fuori orario, utilizzando tutti i pass magnetici a mia disposizione, posso praticamente entrare ed uscire da uno dei luoghi più blindati del pianeta. Tutto per una tazza con il più bel fondoschiena maschile del mondo.

Ma questa è una Mission Impossible. Sono sconsolata e mi fermo in giardino con il viennese Heinz, responsabile di Drawings, che sbircia tra i miei sguardi un pensiero europeo che gli sia appena confidenziale. Lui non pensa a queste cose, è praticamente al bivio tra l’odio verso gli americani e il sistema di come fregarli, che equivale poi a rubare la prossima chilometrica telefonata intercontinentale per chiamare la sua amata Brigitta, sussurrando in tedesco per circa mezza giornata.
Seduti sulla panchina davanti alla piscina, lo guardo di sbieco. E’ di forma cubica con gli occhialini tondi.
“Heinz”
“Si?”
“Ieri sono entrata in una stanza”
“Quale stanza? Dove?”
“Al terzo sottolivello”
“Non ci posso andare lì. Mai stato”.
“Ci sono i magazzini e quindi ho il pass. La stanza è lì sotto”
“E che c’era?”
“Fanti fili”
“Fili?”
“Una stanza enorme attraversata da fili. Fili di tutti i colori, grandi grossi e sottili, sulle pareti, a terra, sul tetto, tutti collegati a dei monitor, centinaia di milioni di miliardi di fili collegati a decine di centraline che pulsano con luci intermittenti. Non ho mai visto nulla di simile in vita mia, neanche nei film di fantascienza”
“E cos’era?
“I fili dei nostri telefoni”
Fissiamo la brillantezza californiana della spettacolare piscina stagliata di fronte a noi. Il catatonico si è impossessato dei suoi muscoli facciali. Quando Heinz ha paura gli esce la voce a fischietto.
“I fili dei nostri telefoni?”
“Si quelli miei e tuoi, di tutti. Praticamente sanno ogni cosa, quello che facciamo, cosa diciamo, a chi lo diciamo. E soprattutto per quanto a lungo lo diciamo”.
Sento il click delle sue spalle che si incurvano a scatto.
“Faccio prima a pagarmi un volo di rientro per l’Austria che pagare la bolletta”.
“Si anche un volo a tariffa piena dell’ultimo minuto senza prenotazione”
“E prima classe”

“Heinz”
“Sì?
“Io e te, qui… come rubare a casa del ladro”.

P.S.:Fu quello il momento esatto in cui architettai a danno di Heinz credo lo scherzo più spietato mai realizzato contro un collega. Ma di questo ne parliamo un’altra volta. Oltretutto, non è facile descrivere. Ho dimenticato la frase che Jessica mi aiutò a scrivergli. Ma sappiate che la tortura del povero Heinz durò circa un mese, tutti i giorni lavorativi e –per come me la pensai- si ripeteva automaticamente ogni 15 secondi.

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