Pensava fosse un cane e invece era la sua nemesi

di Mauro Mirci

Tatar Sarari ha 45 anni, è marocchino, vive a Enna. Il 25 di agosto del 2009, è martedì sera, se ne sta seduto davanti a un bar a Pergusa. Non conosciamo le condizioni climatiche. Data la stagione, la latitudine e la personale esperienza, immaginiamo condizioni caldo-umide degne di una foresta pluviale. A tali condizioni possiamo, volendo, associare una birra ghiacciata da almeno 400 cl, non di meno. Insomma, dipendesse da noi, preferiremmo. Tuttavia, Tatar Sarari è marocchino, è possibile non beva alcolici perché mussulmano, oppure astemio, oppure soltanto perché la birra non gli piace e preferisce bere altro. Allora facciamo che abbia davanti un bicchierone di aranciata gelata.
La spalliera della sedia sulla quale si trova sfiora la parete esterna del locale, lui guarda la strada (a Pergusa i locali si trovano lungo la statale 561, che attraversa l’abitato). Accanto a sè ha un bastone, appoggiato al muro.
Passa un cane, un “meticcio randagio di grossa taglia”. In realtà questa descrizione ci dice poco. Diciamo allora che si tratta di un grosso cane, pelosissimo, alto una settantina di centimetri al garrese. Avrà sei o sette anni. E’ fulvo, con una stella bianca sulla fronte, il pelo arruffato, grandi orecchie pendule, lo sguardo da povero diavolo. Qualcuno gli ha mozzato la coda, anni fa. Per divertimento. Lui ci ha sofferto un po’ perché la coda gli serviva per mangiare. La dimenava, festosa, davanti agli avventori dei locali che affacciano sulla SS561, e quelli s’intenerivano e gli allungavano un boccone.

Anche da quando non ha più la coda ci prova: dimena il mozzicone e qualcuno ancora si intenerisce. Ma meno di prima. Sarà veramente per la lunghezza? Oppure, quando aveva una estremità di dimensioni maggiori era ancora un cucciolone? Mah!, il nostro “meticcio randagio di grosse dimensioni” non conoscerà mai la risposta. Figuratevi noi.
Comunque non ricorda quasi più il momento della mutilazione e soffre molto meno quando pensa alla sua coda. Cioé, a “tutta quanta” la sua coda.
Passa un cane, si diceva, anche se adesso lo conosciamo meglio e potremmo anche chiamarlo “il cane” (ce n’è solo uno in questa storia); anzi, potremmo pure dare un nome a questo cane. Dare un nome ai cani è sempre un problema. Devono essere nomi corti, perché pare che riconoscano solo le sillabe finali di una parola, e per questo, se si vuole che riconoscano il nome intero è bene che sia breve, preferibilmente bisillabo al massimo. Ma Bob, Fido, Jack e via discorrendo ci appaiono banali e scontati. Vito no. Vito è un bel nome, anche se non è propriamente un nome da cane. Vito va benissimo.
Chiameremo quindi Vito il cane di questa storia.
Ecco, allora, Vito che passa davanti al bar. E davanti a Tatar Sarari.
Pare – non è certo, ma lo sostiene più d’un testimone – che i due si fissino intensamente. Tatar forse (insomma, proviamo a immaginare) poggia il bicchiere sul tavolino tondo che gli sta di fianco, e forse allunga la mano verso il bastone. Vito subisce un cambiamento. Gli occhi da povero diavolo si trasformano in occhi da diavolo, senza aggettivo. Ringhia lo stretto indispensabile e prima che Tatar acchiappi il bastone, si fa sotto e stringe tra i denti il polpaccio destro del marocchino.
Tatar urla. Vito stringe, si sente soddisfatto e stringe un altro po’. Il marocchino urla ancora. Urlano anche gli altri avventori del bar. Volano calcioni all’indirizzo dei fianchi di Vito; qualcuno afferrà una sedia per colpirlo. A questo punto Vito capisce che non è aria. Molla la presa e decide per la ritirata. Un tizio cerca di afferrarlo per il pelo, ma basta un ringhio, o forse il ribrezzo per quel vello avvezzo ai cassonetti dei rifiuti, per far desistere il volenteroso accalappiacani volontario.
Vito se la dà a gambe. Tatar è rimasto a terra, e si tiene la gamba ferita. Il titolare del bar chiama ambulanza e vigili urbani.

Mentre alcuni vigili e accalappiacani perlustrano i dintorni alla caccia del cane di questa storia, Tatar Sarari viene portato in pronto soccorso. La cronaca dice “suture di accostamento della pelle”, “cinque punti” e “prognosi di dieci giorni”. Medici e infermieri manifestano solidarietà. Certo, se nessuno ci pensa a questi cani randagi, chissà come andrà a finire, ci sbraneranno tutti per strada.
In pronto soccorso chiedono i documenti a Tatar. Lui fornisce (così dice la cronaca) “elementi molto provvisori” (cosa mai vorrà dire?). Alla fine si scopre la verità: Tatar Sarari non ha il permesso di soggiorno; inoltre fa l’ambulante e (be’, chiaro) non ha nemmeno la licenza.
Viene avvertita la questura, da dove assicurano che hanno il decreto d’espulsione pronto, basta scriverci le generalità.

Un giornalista fa un giretto dalle parti di Pergusa. Trova qualcuno che ha assistito, qualcun altro che non ha assistito ma gli hanno spiegato bene com’è andata, qualche passante che ha sentito dire qualcosa ma s’è già fatto un’idea chiara di tutto.
Quindi:
1 – Il cane meticcio era “animale docile che non aveva dato mai fastidio ad alcuno”;
2 – “il marocchino era solito camminare con un bastone e più volte aveva bastonato il cane”;
3 – “il quale, martedì sera, vedendolo seduto al bar e con un bastone accanto, ha pensato che ancora una volta lo volesse bastonare, e, quindi, ha pensato di aggredirlo”.

Uno o due fanno anche battute del genere: aveva la camicia verde (intendendo il nostro Vito). Nessuna però supera in comicità quella del tizio che ha riferito i pensieri del cane.

Il giornalista torna a casa e prepara il suo pezzo. A un certo punto gli viene da scrivere che Vito (ma lui lo chiama “il cane”, non lo sa che l’abbiamo chiamato Vito) ha rappresentato la nemesi di Tatar. Poi riflette se sia il caso di scrivere Nemesi, con la maiuscola. E il verbo “rappresentare” è adeguato, o è meglio usare un semplice “è stato la nemesi”, anzi no, “è stato la Nemesi”?
Decide allora di dare un’occhiata su wikipedia dove legge che nemesi viene dal greco nèmesis, derivato dal verbo nèmo, distribuire. Omero e Aristotele usano la parola con il significato di “sdegno”, “indignazione”, mentre Erodoto, Claudio Eliano e Plutarco le attribuiscono il significato di “vendetta”, “castigo”.
Bene, pensa il giornalista, può andare. Nemesis era il nome di una dea della mitologia greca che compensava gioie e dolori secondo un principio di compensazione che, a suo modo, era una manifestazione di giustizia, la giustizia compensatrice o giustizia divina. Comunemente viene definito nemesi un fatto al quale è attribuito il significato di espiazione di una colpa o di un peccato. Peccato che va ben oltre la presunta bastonatura del cane, ma è originale, essendo l’extracomunitario, “ab origine”, cioé dal momento del suo ingresso in Italia senza permesso, colpevole penalmente e altrettanto penalmente perseguibile.
Quindi, riflette il giornalista, l’aggressione del cane ha rappresentato la nemesi (ma sì, pure con la minuscola, va bene lo stesso) per Tatar Sarari. Ferito nelle carni e consegnato alla cinica giustizia. Come dire: cornuto e mazziato, senza offesa alcuna per il povero Tatar. Certo, sempre che si prendano per buone le parole del mattacchione che legge la mente canina, e quella di Vito (ma il giornalista pensa “questo cane”) in particolare.

Insomma, il nostro giornalista butta giù l’articolo, ma alla fine decide di tagliare la parte sulla nemesi, perché in redazione gli hanno detto che le notizie vengono meglio se stringate e comprensibili anche a chi non ha fatto il classico (cioé la maggior parte dei lettori). Riflette se sia il caso di lasciare le considerazioni del lettore di pensiero canino. Ma sì, pensa, in fin dei conti magari ha ragione lui: il marocchino aveva il bastone e il cane l’ha aggredito senza apparente motivo; ma se il marocchino aveva picchiato il cane e il cane ha veramente pensato quelle cose tutto si spiega. Dài, sicuro che è andata così.
Infine invia la mail in redazione.

In ogni modo, pare che Vito sia ancora latitante.

[I fatti ai quali questo racconto è ispirato sono veri. Il racconto, come tutti racconti che si rispettano, va ben oltre la verità. Per brevità possiamo possiamo pure dire che ciò che non corrisponde alla cronaca giornalistica è pura fantasia]

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9 risposte a Pensava fosse un cane e invece era la sua nemesi

  1. Bellissimo racconto, in puro stile Mirci, che si raffina sempre di più, fino a tagliare e sezionare, con calviniana chirurgica leggerezza, questa aberrata realtà fatta di cani legislatori e uomini trattati peggio dei cani.

  2. lpanzardi dice:

    E’ surreale assegnare un nome umano ad un cane?
    Non credo: è questione di gusti, per dirla senza peli.
    E’ fantastico affibbiare ad un uomo il nome di un cane?
    Assolutamente si!
    Siamo traditori, spergiuri, ladri, spietati, invidiosi, irascibili, astiosi, permalosi, odiosi,avidi a dismisura, pronti a far guerra non per difendere il proprio territorio ma per occupare quello degli altri, ed infine metafisici, religiosi televisivi e razzisti sanguinari.
    Cioè siamo tutto ciò che il cane non è.

    Ecco perché a mio avviso non è surreale: anzi è uno stupendo scorcio (solo perché breve racconto) d’una realtà maledettamente amara.

    Luigi

  3. carla dice:

    tipico tratto umano, quello di evidenziare solo i fatti senza approfondire la nemesi (in questo caso).
    i giornalisti dovrebbero usare più estro, altrimenti la loro creatività dove si rivela?
    Ciao Mauro 🙂

    p.s.:
    questo sassofono in sottofondo è semplicemente squisito…

  4. mauromirci dice:

    Sassofono?

  5. carla dice:

    🙂
    mentre leggevo questo racconto sentivo la musica di un altro sito che avevo aperto pensando però si trattasse di questo…
    Aurevoir

  6. giorgio ruta dice:

    A questo punto occorre fare l’esegesi della nemesi.
    Il giornalista della cronaca di fine estate sul lago, ha avuto la solita paresi… della coscienza.
    L’autore invece si è soffermato su una tesi.
    Non sempre ciò che appare è e spesso ciò che è non appare. Occorre investigare, ipotizzare fino ai confini dell’assurdo che poi, a ben vedere, assurdo non è.
    C’è un’altra tesi, suggerita da un testimone non oculare ma che era lì in quel momento come metafora.
    Egli sostiene che l’accaduto merita una proiezione della realtà sulla relatività del pensiero, una estrapolazione dell’apparente. Egli sostiene che l’immaginario fa parte del ciò che accade nel cogito e per questo è realtà anch’esso.
    Mohammed , questo il suo vero nome (proprio perché estrapolato dalla realtà), non stava seduto al bar ma passava da lì davanti insieme al cane che lo seguiva; non aveva un bastone con sé ma il sotto di un ombrellone che tentava di vendere. Al bar stavano seduti chi di dovere, chi ha legittimità ad osservare soltanto la propria realtà e a bere i propri problemi ubriacandosi di questi. Il giornalista si è trovato nei dintorni ed ha fiutato il suo pane, l’odore che fa quando passa nelle rotative. Del resto non era difficile, gli elementi c’erano tutti: Mohammed, cane, bastone, illegalità. L’ambulanza è arrivata subito dopo, anzi erano i vigili del fuoco che andavano a spegnere un rogo ma il cronista si è lasciato andare in una licenza poetica.
    Mohammed al pronto soccorso si dimenava e cercava di spiegare a medici ed infermieri che il cane era con lui, il bastone era un ombrellone e non aveva morsi sulle gambe ma soltanto sguardi e giudizi che lo avevano un poco ferito ma soltanto un poco, “non è niente-non è niente” diceva.
    Quando gli hanno fatto notare che non possedeva il permesso di soggiorno, Mohammed con una strana luce negli occhi ha detto: “infatti! Io non esisto, non posso avere ferite, anche il cane non esiste perché è con me, nel vostro immaginario”.
    Il giornalista, proprio perché è il suo mestiere, ha visto la nemesi del cane. Non è andato troppo per il sottile (non gli è dovuto): non ha visto oltre l’apparente, non si è accorto che il cane e Mohammed erano la stessa cosa.
    L’autore del racconto ha tentato invece di mettere alla luce le vere ferite di Mohammed e i morsi della coscienza seduta al bar.
    Questa è soltanto una probabile, estatica, esegesi della nemesi
    gi.ru

  7. mauromirci dice:

    Se ogni scarrafone non fosse bello a mamma sua, dovrei dire che è quasi meglio il commento del commentato.

  8. giorgio ruta dice:

    Permettimi: considerato che l’assioma dello “scarrafone”, per definizione, è palesemente vero e universalmente valido per tutti gli scarrafoni che hanno una mamma, dovrei dire che è quasi meglio il commentato del commento.
    In realtà il “pezzo” è, si, di calviniana leggerezza ma riesce a trasportare verso prosiègui inaspettati di probabile sapore sciasciano
    E poi -confesso- ne ho approfittato per confermare che Vito è proprio un bel nome per un cane. Era un mio cane!
    Sempre in fervida attesa per la V parte de Prima Degli Elleni.

  9. mauro dice:

    Preso dal trasloco, ho potuto lavorare poco sui preellenici. Ma prometto di lavorarci se mi prometti un racconto per paroledisicilia.
    Ho detto.

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