L’incidente

di Mauro Mirci

racconto di Natale

L’incidente capitò alle 19 e trenta del 24 dicembre. Non fu un incidente particolarmente grave – appurarono poi che si era trattato solo dell’allentamento di una cinghia di carico – ma abbastanza per scompaginare tutti i programmi per la notte.
Però è meglio essere più ordinati, ché i fatti vanno raccontati nel giusto ordine.
Il negozio di cravatte aveva deciso di fare orario continuato per la vigilia. Chiusura alle 20. La cravatta è un regalo intramontabile, soprattutto se chi le vende ha l’accortezza di aprire una vetrina accanto a un negozio di computer. Da anni tutti l’elettronica era diventata la scorciatoia del regalo di Natale. In questo, si può dire senza tema di smentita, aveva sostituito le cravatte. Per chi – dubbioso, inconcludente e, per di più, giunto alla sera del 24 senza avere deciso il giusto regalo da piazzare sotto l’albero – la scelta del dono pendesse sul capo come una spada di Damocle, l’elettronica era ormai il passepartout delle buone figure. I telefoni cellulari, soprattutto. Con la videocamera, con suonerie mono, poli, cito e sinfoniche, satellitari e telescopici, colorati o tecnometallici, di design o copiati da un modello più costoso. Così per i computer: modelli da desktop, notebook, con monitor al plasma, integrati da tecnologie designate con nomi che erano virtuosismi di eufonie e doppi sensi linguistici, anche se in inglese, e che quindi richiedevano doppia cultura e doppia perspicacia per istigare un sorriso.
Ma parlavamo di cravatte.
Le cravatte erano un’ottima alternativa – ed economica – all’elettronica. Pare incredibile, ma in quel 24 dicembre di un anno in principio del terzo millennio, esisteva ancora gente che usava la cravatta.
Un vecchio zio emigrato in Australia e poi ritornato, il nonno geometra in pensione del comune, il mezzadro che curava quel fazzoletto di terra dove non si andava quasi mai; gente così, per la quale un pensiero, almeno quello, era d’obbligo, ma della quale non si conoscevano con precisione né gusti né idiosincrasie. Una cravatta è un passepartout di buone figure. Simbolo di perbenismo e ordine viene accettata in dono da chiunque.
Per questo il negozio di cravatte continuava a esistere, con un buon fatturato che aveva i suoi picchi in corrispondenza col Natale e con la festa del papà. Ed era aperto, pur sfruttandone l’effetto traino, anche dopo l’ora di chiusura dell’adiacente negozio di computers.
La signora Carmela Scroppo in Arcidiacono si accingeva a mostrare un campionario di articoli all’appuntato Grasso, che intendeva fare presente rispettoso ma non troppo impegnativo a un maresciallo che lo aveva raccomandato per una questione riguardante suo figlio e certi ingressi gratuiti nella piscina comunale. Franco, che della signora Carmela era il marito, fingeva di sistemare alcune confezioni in uno scaffale basso. In realtà, con abili ancorché dolorosi torcimenti del collo, cercava di cogliere sulla vetrata che dava sulla strada semibuia il riflesso delle gambe accavallate di Tina Rossella, la commessa. La quale si era accomodata sul divanetto per meglio illustrare al ragionier Lavore – affascinante nonché scapolo quarantenne – le virtù di una paio di guanti, giacché anche di questo articolo – e di camicie, e biancheria intima maschile, e pedalini e altri capi simili – i coniugi Arcidiacono facevano commercio.
Quindi, riepilogando: la signora Carmela dietro il banco, l’appuntato Grasso innanzi a lei, Franco Arcidiacono chinato in posizione plastica ai piedi di uno scaffale. Poi la signorina Tina sul divanetto, indecisa se azzardare più esplicite allusioni all’indirizzo del ragioniere Lavore, il quale pensava ai guanti da acquistare e, apparntemente, a nulla più.
Infine – quasi non si notava – un signore su una poltroncina in tinta col divanetto. Nessuno badava a lui. Era entrato un’oretta prima in compagnia della moglie, e mentre lei impegnava Franco Arcidiacono nella ricerca di un paio di guanti da uomo di taglia molto piccola, lui aveva occupato il divano e cavato un romanzetto dalla tasca del cappotto. Leggeva avidamente. La moglie s’era dimenticata di lui. Aveva protestato perchè devono pur esistere dei guanti per uomini dalle mani molto piccole, poi, visto che era tardi, aveva scelto una cintura di similpelle nera ed era andata via da sola.
L’uomo sul divano era rimasto lì, Nessuno gli rivolgeva la parola, ma anche lui sembrava avere dimenticato di essere lì. Leggeva in silenzio, gli occhi fissi sulle pagine.
Mi pare di non dimenticare nessuno. Ah, no. Sulla porta il nipote dei coniugi Arcidiacono, figlio della sorella di lei. Come ogni anno era venuto per salutarli. Come ogni anno, la zia gli avrebbe messo in mano un biglietto di banca di grosso taglio. «Zia, non dovevi.» «Non dire niente a tuo zio.» Un sorriso imbarazzato. «Grazie zia» sottovoce. Poi gli auguri allo zio. Altro biglietto di banca. No! Quest’anno i biglietti inattesi sarebbero stati due, ma il nipote – a proposito, si chiamava Franco, come lo zio — non lo sapeva ancora. «Zio, non dovevi». «Non dire niente a tua zia». Altro sorriso imbarazzato. «Grazie zio.»
Franco – il nipote – già si immaginava la scena. Avrebbe voluto, almeno una volta, cambiare parole, espressioni, quanto meno la sequenza pianificata delle azioni di ognuno. Però aveva paura che gli zii se ne accorgessero. Temevano i cambiamenti, è chiaro: avrebbero venduto computer, altrimenti. I cambiamenti sono pericolosi. Generano riflessioni. Le riflessioni conclusioni, le conclusioni ulteriori riflessioni, troppe riflessioni generano, infine, immobilità. E dei biglietti di banca, ancorché inattesi, immobili nelle tasche dei proprietari, sono sinonimo di un nipote triste.
Per questo Franco decise, come ogni anno, che avrebbe proceduto come d’abitudine.
In effetti Franco non procedette affatto. Una mano guantata lo spinse dentro e lui cadde facciabocconi sulla moquette color tabacco del negozio. Dietro di lui emerse il proprietario della mano guantata: Tuccio Maugeri, anni quarantaquattro, ottima persona ma sfortunata, disoccupato di lungo corso, condotto sulla strada del crimine da alcune amare nonché notturne considerazioni sulle ingiustizie che il mondo riserva ai troppo buoni e agli onesti.
Il viso coperto da un passamontagna cento per cento acrilico, puntava con decisione la pistola giocattolo del figlio decenne Simone. Mentre il passamontagna gli procurava un prurito insopportabile sulle guance e sul collo, lo colse il dubbio atroce di non avere tolto il tappino rosso dall’arma.
Questo pensiero determinò principalmente due reazioni: un atteggiamento assai aggressivo e una esitazione che per poco non gli fu fatale. «Alzate le mani» abbaiò. Tutti alzarono le mani, anche l’appuntato Grasso. Maugeri però esitò sulla soglia proprio perché aveva riconosciuto il carabiniere. «E se quello mi spara davvero?» pensò senza entrare nel negozio.
Il grosso pacco lo beccò sulla testa proprio mentre formulava il punto interrogativo del suo pensiero. Al primo pacco ne seguirono altri, numerosi, che sommersero l’uomo col passamontagna.
Poi si udì il fragore in strada. Sembrava il classico rumore di un incidente stradale.
Corsero verso il rapinatore, con l’unica eccezione dell’uomo che leggeva, il quale rimase seduto a leggere. «Ahiaiai» gemeva Maugeri sotto il cumulo di pacchi. «Minchia!» esclamò il giovane Franco guardando in fondo alla strada. Tutti osservarono lo strano veicolo che aveva travolto un cassonetto verde per la raccolta differenziata. «Ma che è?» disse l’appuntato Grasso. «Ma che cos’è?» chiese con voce tremula la signorina Tina aggrappandosi sapientemente al braccio del ragioniere Lavore. «Non ci posso credere» esclamò Franco Arciadiacono.
Mentre l’appuntato Grasso, con ammirevole senso del dovere, provvedeva a liberare Maugeri dai pacchi onde procedere al suo arresto, gli altri corsero verso lo strano veicolo per cavarne fuori il guidatore.
Si ritrovarono tutti nel negozio di cravatte. Si compose il seguente quadro: Maugeri semisvenuto, sdraiato per terra e ammanettato; Grasso gli tergeva la fronte con un fazzoletto umido. Il guidatore del veicolo sul divanetto; gli altri tutt’intorno con espressione ansiosa.
Fuori dal cerchio, sulla poltroncina, c’era sempre l’uomo che leggeva; ma non dava segni di accorgersi di ciò che era accaduto, né nessuno gli chiedeva di cedere il posto.
Il conducente dello strano veicolo – risultò essere una slitta a motore rossa, decorata di candele e strass – era un signore corpulento, con folti barba e capelli bianchi, vestito di un abito rosso con guarnizioni di pelliccia ecologica candida.
Lo avevano trascinato nel negozio svenuto e non dava segno di voler riprendere conoscenza. «Cercate se ha i documenti» raccomandò Grasso, ancora impegnato con Maugeri. Cercarono. Non ne trovarono. In loro vece molte caramelle mou e due bastoncini di zucchero colorato. «Minchia, è incredibbile!» disse Franco il nipote. «Non dire le parolacce» lo rimproverò la zia Carmela. «Ahò, è lui, non c’è santi» concluse Lavore. «Lui chi?» miagolò la signorina Tina massaggiandogli il bicipite. «Rinviene?» chiese preoccupato Lavore. «Niente» disse la signora Carmela. Franco lo zio uscì e rientrò poco dopo. «E, proprio lui. Il cassone della slitta è ancora pieno di regali.» L’appuntato Grasso, visto che Maugeri si era ripreso levandosi a sedere, si avvicinò all’altro incidentato. «Ci sono feriti. Devo fare rapporto alla procura della repubblica» disse. E aggiunse: «Dovrei capire anche la dinamica dell’incidente.» «I pacchi sono tenuti da una serie di cinghie. Ne ho trovata una allentata. Probabilmente si è spostato il carico.» Grasso sollevò un sopracciglio. «Comunque non credo che fare rapporto sia una buona idea» suggerì Arcidiacono. Grasso ci ponzò qualche istante, mordendosi il labbro inferiore con aria grave. Nella sua mente si accavallarono immaginai di slitte non omologate dal ministero dei trasporti, di verbali di denuncia per lesioni colpose a un rapinatore durante il corso di una rapina, delle facce dei superiori mentre leggevano il suo rapporto, delle inevitabili telefonate di persone molto in alto per mettere a tacere la cosa – uno così vuoi che non conosca nessuno?. «Mi sa che ha ragione lei» disse infine. E poi: «Però non si riprende. Chiamiamo un’ambulanza?»
«No, mi ricoverano.»
Era stato l’uomo sul divano a parlare, con voce insospettabilmente acuta. «Mi ricoverano e non posso.» «Ma nel suo stato è meglio fare un controllo» disse Grasso. «Ha ragione lui» intervenne la signora Carmela. «Avete visto che ore sono?»
Come in un pessimo racconto giallo, l’orologio delle chiesa madre batté le venti con venti rintocchi lugubri. L’uomo sul divano cercò di sollevarsi. «Devo andare via» disse. «Ce la faccio ancora a sfruttare qualche fuso orario e poi tornare qua per mezzanotte.» Ma lo sforzo fu troppo per lui: svenne di nuovo e ricadde sul divanetto con un tonfo sordo.
Grasso gli tastò il polso, ricordandosi di antiche lezioni di primo soccorso impartitegli ai tempi del corso allievi carabinieri. «Il polso è debole, ma regolare. Ha solo bisogno di riposo» sentenziò. Tutti trovarono più rassicurante credergli.
«E… la slitta?» chiese Franco il nipote.
«Già, i regali» convenne il ragioniere Lavore all’unisono con la signorina Tina. Quell’identità di pensiero li avvicinò anche nello spirito, giacché alla vicinanza fisica continuava a provvedere lei, ormai aggrappata al braccio del ragioniere in maniera cronica. Una piccola fiamma si accese in fondo al cuore del ragioniere, e irradiò calore da lì, in maniera centrifuga, sino a riscaldare ogni parte del suo corpo. «E’ l’amore?» si chiese il ragioniere. E di quel pensiero ebbe paura.
Ma anche negli altri qualcosa stava cambiando. Nessuno rimase insensibile all’idea che una tradizione millenaria potesse essere interrotta dal banale allentamento di una cinghia di carico. Quasi inconsapevolmente le mani di ognuno cercarono quelle del vicino.
Anche Tuccio Maugeri sentì l’insopprimibile istinto di aggregarsi a quella neonata comunità, pur intralciato dalle manette, e ci riuscì, toccando i vicini coi gomiti. «Io c’ho la patente C» disse. L’appuntato Grasso cercò consenso negli occhi dei presenti. Tutti fecero un cenno positivo. Le manette furono aperte.
L’uomo sul divano cominciò a russare sonoramente. «Ve l’avevo detto che doveva solo riposare un poco» fece il carabiniere.
Raccolsero i pacchi in fretta e furia e li imbracarono bene, stringendo le cinghie a dovere. Nell’abitacolo c’era posto solo per tre persone. Per questioni di cavalleria, accanto a Tuccio Maugeri si accomodarono le due donne. La signorina Tina abbandonò con dispiacere il braccio di Lavore, e quando quel contatto fu interrotto anche il ragioniere ebbe un sussulto d’ansia. «Sono qui dietro» la rassicurò accennando al carico di regali. Lei gli sorrise. Lui ricambiò. Lei si irrigidì un po’ quando si accorse che gli mancavano due premolari, ma fu subito sopraffatta da un’ondata di tenerezza. «E’ l’amore?» si chiese anche lei.
Il ragioniere e gli altri uomini montarono a cassone, imbacuccati come esquimesi, perché la notte siciliana è calda, ma là dove erano diretti chissà.
L’uomo vestito di rosso continuò a dormire saporitamente sul divanetto. Il suo ronfare non disturbò assolutamente l’uomo che leggeva, giunto ormai all’ultimo capitolo del suo libro. Quando la slitta partì, dopo una breve manovra di retromarcia, rimase ancora una mezz’oretta nel negozio, il tempo di finire il capitolo. Infine si sollevò in piedi, si sgranchì, sospirò e si guardò intorno.
«Non c’è nessuno?» fece perplesso. «Ma vedi tu che roba. Luci accese, porta spalancata… Certo che poi gli entrano i barboni a dormire in negozio.» E con un’alzata di spalle uscì in strada, già pensando al nuovo libro che avrebbe iniziato a leggere.
Anche per quel Natale i regali furono consegnati tutti, regolarmente. Però qualche bambino, l’indomani, affermò che Babbo Natale indossava un passamontagna.
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2 risposte a L’incidente

  1. Loredana dice:

    Il racconto è davvero bello. L’ho riletto con piacere, datosi che oggi IO non cucino

  2. mauromirci dice:

    Ahimé, io ho già cucinato. Colui che scrive è un essere distrutto.

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