Il lume e la candela

di Greta Cerretti

Quando ho visto che avevi acceso anche le candele mi sono commossa. È stato più forte di me: avrei voluto attraversare il tuo salone con passo spedito, sedermi con noncuranza sul divano che ci ha cullati tante notti e accavallare le gambe. Sicura di me, immune a tutta la scenografia che hai architettato per averla di nuovo vinta sulla mia debole anima. Invece sono crollata alla vista di una candela profumata dell’Ikea.
La tua casa non è cambiata, è rimasta esattamente come la ricordavo. Come le camerette dei figli morti, che i genitori lasciano intatte, con il copriletto disfatto e le pareti tappezzate con i poster di cantanti ormai trapassati di moda. Anche noi siamo trapassati. Di quello che ci univa non è rimasto che polvere e lacrime. Eppure, guardando questa tavola apparecchiata con cura, penso che quando lo stoppino affogherà nella cera liquida, invece del buio eterno potrebbe accendersi una possibilità.
«Vieni, Sofia, dammi il cappotto.»
La tua voce è di nuovo melodiosa, non più arrochita dal catrame e dalla nicotina.
«Hai smesso di fumare?»
«Sì» rispondi perplesso «e ho anche ricominciato a correre. Come te ne sei accorta?»
Non posso dirti che l’ho avvertito dal brivido che mi ha percorso la schiena quando hai pronunciato il mio  nome.
«La casa non puzza più di fumo,» mento, aggredendoti un po’ «e non puzza più neanche di gatto.»
Mi guardo intorno alla ricerca di Ofelia. Resisto alla tentazione di chiamarla, non voglio farti capire quanto mi è mancata quell’invadente palla di pelo.
Il tuo sguardo si fa triste, abbassi gli occhi fuggendo la mia reazione.  «Ofelia l’ha portata via…»
Avrei voglia di darti uno schiaffo. Ha preso il gatto, il nostro gatto, quello che abbiamo salvato da morte certa, curandolo come il figlio che non avevamo. Glielo hai lasciato fare.
Mi siedo sul divano, ma non riesco ad avere l’aria noncurante che avevo studiato a tavolino uscendo di casa. Mi soffermo a guardare il salone, il camino, la tovaglia damascata. Non hai tralasciato nulla: i bicchieri di cristallo, il piatto per l’antipasto accanto a quelli da portata. Addirittura una doppia forchetta, come al ristorante. Cosa vorrai in cambio?
«Ho preparato un antipasto con cacio di Pienza, pere e miele di acacia.» Mi porgi il vassoio con lo sguardo prima fisso sui miei occhi, poi un po’ più in basso, nella generosa scollatura che mi sono concessa. Come se servisse a qualcosa.
«Il mio preferito,» rispondo, affondando nel formaggio stagionato uno stuzzicadenti di plastica verde «non lo hai dimenticato.»
«Non ho dimenticato nulla di noi due.»
Eccoti qui, seduto a un palmo di distanza. Il tuo pantalone di velluto sfiora appena il mio collant venti denari. Mastico il formaggio, indifesa mentre aspiro il tuo profumo Enrico Coveri. È una droga che non mi iniettavo da troppo tempo, l’effetto è così forte che devo scostarmi per non iniziare a piangere. Quante volte ho benedetto e maledetto questo profumo. Accadeva all’improvviso, magari mentre vagavo in un centro commerciale o seduta su un vagone della metropolitana. Voltavo di scatto la testa, come se tu fossi l’unico individuo al mondo a usare questa fragranza. Invece della tua testolina tonda, mi trovavo di fronte una moltitudine di uomini diversi: più belli, più brutti, più alti o più bassi. Non eri mai tu. Come avresti potuto?
Io sono scappata, mi sono rifugiata nella caotica e disarmante Roma. Tu sei rimasto qui, alle pendici del Monte Amiata, a scaldarti al fuoco di un camino e sul corpo di qualcun altro.
«Vieni, accomodati, stappiamo il vino.»
Nobile di Montepulciano: questa  volta hai giocato nel tuo campo. Per me è troppo forte, abbassa le mie difese e la mattina dopo rimango a combattere con il tannino e i sensi di colpa. Lo hai fatto apposta. Versi un generoso bicchiere che annuso a lungo, mentre inizi a trafficare in cucina. Guardo le tue spalle quadrate ma troppo piccole, che non hanno mai potuto abbracciarmi come avrei voluto. Si muovono ritmicamente, scosse a tratti da quella tosse nervosa che non ti ha lasciato solo. È una cantilena che si acquieta solo di notte: quante volte sono rimasta a guardarti mentre dormivi, per osservare il tuo petto sereno e rilassato. Hai indossato anche un grembiule da cucina, con il David di Michelangelo stampato sul davanti e coperto da una foglia di fico nelle nudità. Un tributo a Firenze, alla tua Firenze.
«Tortelli burro e salvia.» Arrivi con un vassoio fumante e un sorriso malizioso nascosto sotto la barba incolta. «E poi cinghiale in umido, per cui non esagerare con il primo.» Mi strizzi l’occhio e ti siedi di fronte a me, lasciandomi libera di servirmi a mio piacimento. Sai benissimo che prenderò solo un tortello. Forse due, per farti contento.
«Hai cucinato per un esercito. Io non mangio molto, forse mi confondi con un’altra persona.» La stoccata arriva diretta, una freccia in pieno petto. Separo il ripieno di ricotta e spinaci dalla sfoglia di pasta e poi alzo gli occhi, per vedere come la mia cattiveria ti si è stampata in faccia. Invece sei sempre lì a guardarmi con occhi dolci, sorseggiando il Nobile. Dai l’impressione di gustartelo parecchio. Ignori la mia frecciata, cambi argomento spostando il campo di battaglia nel passato, nel mondo dei ricordi.
«Quand’è che abbiamo cenato insieme da soli, così, l’ultima volta? Non riesco proprio a ricordarmelo.»
Io sì. Io me lo ricordo bene.
Ricordo una tavola apparecchiata come questa, solo che ero io a fare gli onori di casa. Al centro del tavolo il servizio da bourguignonne, nei calici un Sinigiolo D.O.C., nei piatti filetto appena cotto e intinto nelle salsine colorate. Noi due che ridiamo, beviamo, parliamo. Come due amici, quali siamo da che la pubertà ci ha presi tra le sue braccia. Noi due che a un certo punto ci troviamo troppo vicini per essere amici. Tu che ti scosti, io che ti voglio. Io che faccio il primo passo, incurante di quello che è giusto o non giusto fare. Tu che ti alzi e guardi fuori dalla finestra. La neve scende piano, ricopre i tetti delle case e la tua 126 bianca parcheggiata in strada. Mi mostri quelle spalle scosse da un tic al quale non so dare un nome. Non ancora. Tu che sussurri il tuo segreto a quella finestra, soffiandolo sulla condensa con l’alito caldo. «Sono omosessuale.» Io che cado in ginocchio sul tappeto e resto muta. Muta perché ho voglia di piangere, ma non posso farlo. Muta perché vorrei graffiarti a sangue, ma non servirebbe a niente. Muta perché il mio destino è quello di amarti e non poterti avere. Io che alla fine mi alzo e abbraccio quelle piccole spalle per consolarti. Come se fossi tu quello da consolare.
«Credo sia stato a casa mia, una decina di anni fa» ti rispondo, mentre intingo il pane sciapo nel sugo rosso del cinghiale alla cacciatora. Sei un ottimo cuoco, un ottimo amico. Saresti un ottimo compagno di vita. «Prima che ti trasferissi a Firenze.»
«Hai ragione.» Continui a bere, il piatto ancora pieno di succulenti pezzi di carne selvatica ben cotta.
«Davvero non te lo ricordi?» Mi sembra impossibile che tu abbia dimenticato quella serata, che ha cambiato per sempre le nostre vite e la nostra amicizia. Non credo potresti fingere di averlo dimenticato, solo per beffarti di me.
«Non sono sicuro. Credo che sbagli. Non è stata quella l’ultima volta che abbiamo organizzato una cenetta romantica.»
«È stata l’ultima volta importante.»
Mi alzo da tavola senza finire di mangiare. Ho di nuovo le lacrime agli occhi, lo stomaco chiuso e indolenzito. Vorrei correre in bagno a vomitare. Ma sono cresciuta, sono guarita. Scelgo di vomitarti addosso la mia rabbia, tanto per cambiare questo copione che sta diventando doloroso. E pericoloso.
«Hai ragione, Marco, non è quella l’ultima volta che abbiamo mangiato insieme a lume di candela. L’ultima volta mi hai preparato una cena come questa, i cibi prelibati, la musica in sottofondo. Mi hai ubriacata e poi mi hai chiesto di fare un figlio insieme!»
Le parole escono veloci e sibilanti, mi sembra quasi di vederti mentre tenti di schivarle. «Viviamo insieme da quattro anni ormai, hai detto. Nessuno crede al fatto che siamo solo amici, in questo paese di bigotte e malpensanti. Facciamo un figlio, diventiamo una famiglia.»
«E tu hai risposto no…» nella tua voce sento un tono di malinconia, e una nota di rimprovero.
«E allora tu che hai fatto? Meno di ventiquattro ore dopo ecco apparire il bel Gregorio alla porta. Le valigie colme di abiti e futuro, il sorriso della vittoria stampato in quella faccia da ebete mentre prendeva in braccio il nostro gatto. Non la voglio ricordare quella serata, sto cercando di cancellarla da più di cinque anni. So che lo hai fatto apposta, che ti sei vendicato per il mio rifiuto.»
«No Sofia. Non mi sono vendicato. L’ho fatto per noi. Dicendomi no, mi ha fatto capire quanto la mia domanda fosse sbagliata. Dovevamo separarci, concederci un’opportunità di essere normali. Ognuno a modo proprio.»
«Grazie, grazie infinite!» sto urlando a pieni polmoni. Stiamo dando ai tuoi vicini materiale di pettegolezzo per almeno sei mesi: più tardi scenderò a chiedere il pagamento del biglietto.
«Grazie per avermi concessa una libertà che non volevo, grazie per avermi cacciata da casa tua, proprio quando ormai la pensavo anche un po’ mia!»
«Mi dispiace, davvero. Ma tu non sei stata l’unica a soffrire.»
Ti alzi e inizi a sparecchiare, come se quello che stiamo dicendo non avesse per te una vera importanza. Come se stessimo discutendo di un film appena terminato in tv, e non delle nostre vite alla deriva. I tuoi occhi di ghiaccio si sono fatti cupi, carichi di nuvole nere. Ho paura che da un momento vi scoppi un temporale, un oceano di quelle tue lacrime che non riuscivo mai a fermare. Invece non accade nulla. Cos’è che ti rende immune al dolore del passato?
Ritorni con un piatto di ceramica blu, dentro c’è una fetta di ricciolina e una di salame dolce. I miei preferiti.
«So che non riesci mai a decidere quale mangiare, così li ho presi entrambi.»
Furfante.
«Perché mi hai chiamata? Perché Gregorio ti ha lasciato? Volevi che ti consolassi?»
Il gusto del cioccolato non riesce a sedare l’amaro che mi è salito alla bocca. Ho atteso la tua telefonata per cinque lunghi, fottutissimi anni. Sapevo che sarebbe arrivata, sapevo che un giorno saresti tornato indietro. A chiedere perdono, a cercare redenzione. Se fossi stata molto fortunata, e lo sono stata, per piangere sulla mia spalla la fine della tua relazione. Volevo ignorarti, fingermi troppo impegnata e lasciarti solo a leccare le ferite. Invece la tua voce non aveva il suono dell’amante abbandonato. E io non ho resistito: ho imboccato l’A1 in pieno inverno, senza neanche le catene in macchina, guidando fin qui in un balzo lungo duecento chilometri. Un balzo indietro nel passato. Per vedere con i miei occhi quello che sei diventato.
«Io e Gregorio ci siamo lasciati da più di un anno.»
«Da più di un anno?» Non riesco a capire, mi sforzo di comprendere quello che, volutamente, non stai dicendo
«E allora perché mi hai chiamata ora?»
«Non ti ho chiamata perché la mia relazione è finita, per piangere sulla tua spalla!» La tua voce si è fatta grossa, la rabbia rompe la barriera del suono. «Non sono così meschino, non lo sono mai stato.»
Sei di nuovo calmo. Senza esitazione mi prendi la mano, tenendo i miei polpastrelli tra i tuoi. Inizi a giocare piano con il pollice, fino a raggiungere il mignolo in una minuscola giostra di carezze. Di nuovo troppo vicino.
«Che cosa hai fatto in questi cinque anni, Sofia?»
La domanda è schietta, diretta. Nessuna esitazione. La tosse è scomparsa, c’è solo il rumore del fuoco a rompere il silenzio del mio cuore.
Potrei mentire, vorrei mentire. Vorrei dirti che una serata non basta a raccontare tutto quello che ho fatto, visto, goduto senza di te. Potrei inventare mille nuovi amici, decine di amanti. Tutta una vita della quale non hai fatto parte. Ma sono stanca. Il vino mi ha piegata, la tua cena mi ha stregata. La verità non farà mai male come i giorni che ho trascorso senza di te.
«Ti ho pianto.  Ho pianto quello che avevamo, e che tu mi avevi tolto.»
«Non hai incontrato nessuno?» Mi guardi senza gelosia, ma con vivo interesse. Scuoto il capo, nessun suono esce per rispondere alle tue domande «Nessuno che ti ha fatto battere il cuore, che ti ha fatto desiderare di avere una famiglia con lui?»
Ritiro la mano in un istintivo gesto di difesa. Vino o non vino, ho capito dove vuoi andare a parare. Ora il tuo disegno mi è chiaro come la neve che cade fuori dalla finestra.
«Voglio farti la stessa domanda, Sofia» incalzi senza sosta, incurante di passato, presente e futuro. «E voglio sapere se di nuovo, oggi, vorrai dirmi di no.»
«Quale domanda?» fingo di non capire, seguace del detto che fare lo scemo ti permette di non andare alla guerra. Non la voglio, questa guerra.
Il tuo sorriso è aperto, beffardo. Scegli di stare al gioco, mi lasci vincere questa battaglia. Tu vuoi vincerla, la guerra.
«Io ho pianto quello che non abbiamo avuto, ma potevamo avere. Ti ho dato una possibilità, l’ho data a tutti e due. Ma ogni scelta mi ha portato di nuovo qui, di fronte a te.»
Ti fermi per una pausa a effetto, hai studiato nel dettaglio menù, caffè e ammazzacaffè. Stai presentando un conto piuttosto salato.
«Io voglio un figlio, Sofia. Voglio un figlio nostro, voglio una famiglia. Lo volevo allora e lo voglio oggi.»
La tua non è una domanda, è una dichiarazione d’intenti.
Mi alzo e vado verso la finestra. Mi domando cosa sono venuta a fare fino a qui. Milleottocento giorni di attesa per sbatterti in faccia la stessa, identica porta. Per tornare a soffrire di una malattia che ha un nome e un cognome. Il tuo.
Penso alla mia stanza d’affitto a Roma, quartiere San Lorenzo. Agli studenti con cui la divido, che cambiano ogni anno. A volte ogni semestre. Penso al mio lavoro come commessa in un negozio di abbigliamento. Penso a quanto tutto questo sia normale, cattolico, benpensante. Nessuna spiegazione, nessuna domanda.
E nessuna felicità.
Poi penso alle nostre serate in questa casa: le partite a scarabeo, le serie tv. Il tuo caffè annacquato e la macchina del gas sempre sporca. Il suono leggero delle tue dita sulla porta al mattino. Toc toc, posso infilarmi sotto il piumone con te e strapazzarti di coccole? Solo così potrò affrontare il grigio della mia giornata. Penso a quanto mi è mancato tutto questo.
Troppo dolore.
«Devi chiamare Gregorio.»
La tosse nervosa riprende senza sosta, per un minuto buono ne sei sopraffatto. Io continuo a guardare fuori dalla finestra la neve che cade. È la mia macchina, questa volta, a restare sommersa da quel bianco silenzio.
«Non c’è bisogno, sto bene da solo. Se non vuoi, non fa niente. Ma dovevo tentare.»
«Ho detto che devi chiamare Gregorio.»
«Perché?» Nella tua voce una nota confusa, la tosse che si ferma, la curiosità divorante per la mia insistenza.
«Perché deve riportare Ofelia. Ai bambini piacciono i gatti.»

Il Lume  e La CandelaQuando ho visto che avevi acceso anche le candele mi sono commossa. È stato più forte di me: avrei voluto attraversare il tuo salone con passo spedito, sedermi con noncuranza sul divano che ci ha cullati tante notti e accavallare le gambe. Sicura di me, immune a tutta la scenografia che hai architettato per averla di nuovo vinta sulla mia debole anima. Invece sono crollata alla vista di una candela profumata dell’Ikea.La tua casa non è cambiata, è rimasta esattamente come la ricordavo. Come le camerette dei figli morti, che i genitori lasciano intatte, con il copriletto disfatto e le pareti tappezzate con i poster di cantanti ormai trapassati di moda. Anche noi siamo trapassati. Di quello che ci univa non è rimasto che polvere e lacrime. Eppure, guardando questa tavola apparecchiata con cura, penso che quando lo stoppino affogherà nella cera liquida, invece del buio eterno potrebbe accendersi una possibilità. «Vieni, Sofia, dammi il cappotto.»La tua voce è di nuovo melodiosa, non più arrochita dal catrame e dalla nicotina.«Hai smesso di fumare?»«Sì» rispondi perplesso «e ho anche ricominciato a correre. Come te ne sei accorta?»Non posso dirti che l’ho avvertito dal brivido che mi ha percorso la schiena quando hai pronunciato il mio  nome.«La casa non puzza più di fumo,» mento, aggredendoti un po’ «e non puzza più neanche di gatto.»Mi guardo intorno alla ricerca di Ofelia. Resisto alla tentazione di chiamarla, non voglio farti capire quanto mi è mancata quell’invadente palla di pelo.Il tuo sguardo si fa triste, abbassi gli occhi fuggendo la mia reazione.  «Ofelia l’ha portata via…»Avrei voglia di darti uno schiaffo. Ha preso il gatto, il nostro gatto, quello che abbiamo salvato da morte certa, curandolo come il figlio che non avevamo. Glielo hai lasciato fare.Mi siedo sul divano, ma non riesco ad avere l’aria noncurante che avevo studiato a tavolino uscendo di casa. Mi soffermo a guardare il salone, il camino, la tovaglia damascata. Non hai tralasciato nulla: i bicchieri di cristallo, il piatto per l’antipasto accanto a quelli da portata. Addirittura una doppia forchetta, come al ristorante. Cosa vorrai in cambio?«Ho preparato un antipasto con cacio di Pienza, pere e miele di acacia.» Mi porgi il vassoio con lo sguardo prima fisso sui miei occhi, poi un po’ più in basso, nella generosa scollatura che mi sono concessa. Come se servisse a qualcosa.«Il mio preferito,» rispondo, affondando nel formaggio stagionato uno stuzzicadenti di plastica verde «non lo hai dimenticato.»«Non ho dimenticato nulla di noi due.»Eccoti qui, seduto a un palmo di distanza. Il tuo pantalone di velluto sfiora appena il mio collant venti denari. Mastico il formaggio, indifesa mentre aspiro il tuo profumo Enrico Coveri. È una droga che non mi iniettavo da troppo tempo, l’effetto è così forte che devo scostarmi per non iniziare a piangere. Quante volte ho benedetto e maledetto questo profumo. Accadeva all’improvviso, magari mentre vagavo in un centro commerciale o seduta su un vagone della metropolitana. Voltavo di scatto la testa, come se tu fossi l’unico individuo al mondo a usare questa fragranza. Invece della tua testolina tonda, mi trovavo di fronte una moltitudine di uomini diversi: più belli, più brutti, più alti o più bassi. Non eri mai tu. Come avresti potuto?Io sono scappata, mi sono rifugiata nella caotica e disarmante Roma. Tu sei rimasto qui, alle pendici del Monte Amiata, a scaldarti al fuoco di un camino e sul corpo di qualcun altro.«Vieni, accomodati, stappiamo il vino.»Nobile di Montepulciano: questa  volta hai giocato nel tuo campo. Per me è troppo forte, abbassa le mie difese e la mattina dopo rimango a combattere con il tannino e i sensi di colpa. Lo hai fatto apposta. Versi un generoso bicchiere che annuso a lungo, mentre inizi a trafficare in cucina. Guardo le tue spalle quadrate ma troppo piccole, che non hanno mai potuto abbracciarmi come avrei voluto. Si muovono ritmicamente, scosse a tratti da quella tosse nervosa che non ti ha lasciato solo. È una cantilena che si acquieta solo di notte: quante volte sono rimasta a guardarti mentre dormivi, per osservare il tuo petto sereno e rilassato. Hai indossato anche un grembiule da cucina, con il David di Michelangelo stampato sul davanti e coperto da una foglia di fico nelle nudità. Un tributo a Firenze, alla tua Firenze. «Tortelli burro e salvia.» Arrivi con un vassoio fumante e un sorriso malizioso nascosto sotto la barba incolta. «E poi cinghiale in umido, per cui non esagerare con il primo.» Mi strizzi l’occhio e ti siedi di fronte a me, lasciandomi libera di servirmi a mio piacimento. Sai benissimo che prenderò solo un tortello. Forse due, per farti contento.«Hai cucinato per un esercito. Io non mangio molto, forse mi confondi con un’altra persona.» La stoccata arriva diretta, una freccia in pieno petto. Separo il ripieno di ricotta e spinaci dalla sfoglia di pasta e poi alzo gli occhi, per vedere come la mia cattiveria ti si è stampata in faccia. Invece sei sempre lì a guardarmi con occhi dolci, sorseggiando il Nobile. Dai l’impressione di gustartelo parecchio. Ignori la mia frecciata, cambi argomento spostando il campo di battaglia nel passato, nel mondo dei ricordi.«Quand’è che abbiamo cenato insieme da soli, così, l’ultima volta? Non riesco proprio a ricordarmelo.»Io sì. Io me lo ricordo bene. Ricordo una tavola apparecchiata come questa, solo che ero io a fare gli onori di casa. Al centro del tavolo il servizio da bourguignonne, nei calici un Sinigiolo D.O.C., nei piatti filetto appena cotto e intinto nelle salsine colorate. Noi due che ridiamo, beviamo, parliamo. Come due amici, quali siamo da che la pubertà ci ha presi tra le sue braccia. Noi due che a un certo punto ci troviamo troppo vicini per essere amici. Tu che ti scosti, io che ti voglio. Io che faccio il primo passo, incurante di quello che è giusto o non giusto fare. Tu che ti alzi e guardi fuori dalla finestra. La neve scende piano, ricopre i tetti delle case e la tua 126 bianca parcheggiata in strada. Mi mostri quelle spalle scosse da un tic al quale non so dare un nome. Non ancora. Tu che sussurri il tuo segreto a quella finestra, soffiandolo sulla condensa con l’alito caldo. «Sono omosessuale.» Io che cado in ginocchio sul tappeto e resto muta. Muta perché ho voglia di piangere, ma non posso farlo. Muta perché vorrei graffiarti a sangue, ma non servirebbe a niente. Muta perché il mio destino è quello di amarti e non poterti avere. Io che alla fine mi alzo e abbraccio quelle piccole spalle per consolarti. Come se fossi tu quello da consolare.«Credo sia stato a casa mia, una decina di anni fa» ti rispondo, mentre intingo il pane sciapo nel sugo rosso del cinghiale alla cacciatora. Sei un ottimo cuoco, un ottimo amico. Saresti un ottimo compagno di vita. «Prima che ti trasferissi a Firenze.»«Hai ragione.» Continui a bere, il piatto ancora pieno di succulenti pezzi di carne selvatica ben cotta. «Davvero non te lo ricordi?» Mi sembra impossibile che tu abbia dimenticato quella serata, che ha cambiato per sempre le nostre vite e la nostra amicizia. Non credo potresti fingere di averlo dimenticato, solo per beffarti di me.«Non sono sicuro. Credo che sbagli. Non è stata quella l’ultima volta che abbiamo organizzato una cenetta romantica.»«È stata l’ultima volta importante.»Mi alzo da tavola senza finire di mangiare. Ho di nuovo le lacrime agli occhi, lo stomaco chiuso e indolenzito. Vorrei correre in bagno a vomitare. Ma sono cresciuta, sono guarita. Scelgo di vomitarti addosso la mia rabbia, tanto per cambiare questo copione che sta diventando doloroso. E pericoloso.«Hai ragione, Marco, non è quella l’ultima volta che abbiamo mangiato insieme a lume di candela. L’ultima volta mi hai preparato una cena come questa, i cibi prelibati, la musica in sottofondo. Mi hai ubriacata e poi mi hai chiesto di fare un figlio insieme!»Le parole escono veloci e sibilanti, mi sembra quasi di vederti mentre tenti di schivarle. «Viviamo insieme da quattro anni ormai, hai detto. Nessuno crede al fatto che siamo solo amici, in questo paese di bigotte e malpensanti. Facciamo un figlio, diventiamo una famiglia.»«E tu hai risposto no…» nella tua voce sento un tono di malinconia, e una nota di rimprovero.«E allora tu che hai fatto? Meno di ventiquattro ore dopo ecco apparire il bel Gregorio alla porta. Le valigie colme di abiti e futuro, il sorriso della vittoria stampato in quella faccia da ebete mentre prendeva in braccio il nostro gatto. Non la voglio ricordare quella serata, sto cercando di cancellarla da più di cinque anni. So che lo hai fatto apposta, che ti sei vendicato per il mio rifiuto.»«No Sofia. Non mi sono vendicato. L’ho fatto per noi. Dicendomi no, mi ha fatto capire quanto la mia domanda fosse sbagliata. Dovevamo separarci, concederci un’opportunità di essere normali. Ognuno a modo proprio.»«Grazie, grazie infinite!» sto urlando a pieni polmoni. Stiamo dando ai tuoi vicini materiale di pettegolezzo per almeno sei mesi: più tardi scenderò a chiedere il pagamento del biglietto.«Grazie per avermi concessa una libertà che non volevo, grazie per avermi cacciata da casa tua, proprio quando ormai la pensavo anche un po’ mia!»«Mi dispiace, davvero. Ma tu non sei stata l’unica a soffrire.»Ti alzi e inizi a sparecchiare, come se quello che stiamo dicendo non avesse per te una vera importanza. Come se stessimo discutendo di un film appena terminato in tv, e non delle nostre vite alla deriva. I tuoi occhi di ghiaccio si sono fatti cupi, carichi di nuvole nere. Ho paura che da un momento vi scoppi un temporale, un oceano di quelle tue lacrime che non riuscivo mai a fermare. Invece non accade nulla. Cos’è che ti rende immune al dolore del passato? Ritorni con un piatto di ceramica blu, dentro c’è una fetta di ricciolina e una di salame dolce. I miei preferiti.«So che non riesci mai a decidere quale mangiare, così li ho presi entrambi.»Furfante. «Perché mi hai chiamata? Perché Gregorio ti ha lasciato? Volevi che ti consolassi?»Il gusto del cioccolato non riesce a sedare l’amaro che mi è salito alla bocca. Ho atteso la tua telefonata per cinque lunghi, fottutissimi anni. Sapevo che sarebbe arrivata, sapevo che un giorno saresti tornato indietro. A chiedere perdono, a cercare redenzione. Se fossi stata molto fortunata, e lo sono stata, per piangere sulla mia spalla la fine della tua relazione. Volevo ignorarti, fingermi troppo impegnata e lasciarti solo a leccare le ferite. Invece la tua voce non aveva il suono dell’amante abbandonato. E io non ho resistito: ho imboccato l’A1 in pieno inverno, senza neanche le catene in macchina, guidando fin qui in un balzo lungo duecento chilometri. Un balzo indietro nel passato. Per vedere con i miei occhi quello che sei diventato. «Io e Gregorio ci siamo lasciati da più di un anno.»«Da più di un anno?» Non riesco a capire, mi sforzo di comprendere quello che, volutamente, non stai dicendo «E allora perché mi hai chiamata ora?»«Non ti ho chiamata perché la mia relazione è finita, per piangere sulla tua spalla!» La tua voce si è fatta grossa, la rabbia rompe la barriera del suono. «Non sono così meschino, non lo sono mai stato.»Sei di nuovo calmo. Senza esitazione mi prendi la mano, tenendo i miei polpastrelli tra i tuoi. Inizi a giocare piano con il pollice, fino a raggiungere il mignolo in una minuscola giostra di carezze. Di nuovo troppo vicino.«Che cosa hai fatto in questi cinque anni, Sofia?»La domanda è schietta, diretta. Nessuna esitazione. La tosse è scomparsa, c’è solo il rumore del fuoco a rompere il silenzio del mio cuore.Potrei mentire, vorrei mentire. Vorrei dirti che una serata non basta a raccontare tutto quello che ho fatto, visto, goduto senza di te. Potrei inventare mille nuovi amici, decine di amanti. Tutta una vita della quale non hai fatto parte. Ma sono stanca. Il vino mi ha piegata, la tua cena mi ha stregata. La verità non farà mai male come i giorni che ho trascorso senza di te.«Ti ho pianto.  Ho pianto quello che avevamo, e che tu mi avevi tolto.»«Non hai incontrato nessuno?» Mi guardi senza gelosia, ma con vivo interesse. Scuoto il capo, nessun suono esce per rispondere alle tue domande «Nessuno che ti ha fatto battere il cuore, che ti ha fatto desiderare di avere una famiglia con lui?»Ritiro la mano in un istintivo gesto di difesa. Vino o non vino, ho capito dove vuoi andare a parare. Ora il tuo disegno mi è chiaro come la neve che cade fuori dalla finestra.«Voglio farti la stessa domanda, Sofia» incalzi senza sosta, incurante di passato, presente e futuro. «E voglio sapere se di nuovo, oggi, vorrai dirmi di no.»«Quale domanda?» fingo di non capire, seguace del detto che fare lo scemo ti permette di non andare alla guerra. Non la voglio, questa guerra.Il tuo sorriso è aperto, beffardo. Scegli di stare al gioco, mi lasci vincere questa battaglia. Tu vuoi vincerla, la guerra.«Io ho pianto quello che non abbiamo avuto, ma potevamo avere. Ti ho dato una possibilità, l’ho data a tutti e due. Ma ogni scelta mi ha portato di nuovo qui, di fronte a te.»Ti fermi per una pausa a effetto, hai studiato nel dettaglio menù, caffè e ammazzacaffè. Stai presentando un conto piuttosto salato.«Io voglio un figlio, Sofia. Voglio un figlio nostro, voglio una famiglia. Lo volevo allora e lo voglio oggi.»La tua non è una domanda, è una dichiarazione d’intenti. Mi alzo e vado verso la finestra. Mi domando cosa sono venuta a fare fino a qui. Milleottocento giorni di attesa per sbatterti in faccia la stessa, identica porta. Per tornare a soffrire di una malattia che ha un nome e un cognome. Il tuo.Penso alla mia stanza d’affitto a Roma, quartiere San Lorenzo. Agli studenti con cui la divido, che cambiano ogni anno. A volte ogni semestre. Penso al mio lavoro come commessa in un negozio di abbigliamento. Penso a quanto tutto questo sia normale, cattolico, benpensante. Nessuna spiegazione, nessuna domanda. E nessuna felicità. Poi penso alle nostre serate in questa casa: le partite a scarabeo, le serie tv. Il tuo caffè annacquato e la macchina del gas sempre sporca. Il suono leggero delle tue dita sulla porta al mattino. Toc toc, posso infilarmi sotto il piumone con te e strapazzarti di coccole? Solo così potrò affrontare il grigio della mia giornata. Penso a quanto mi è mancato tutto questo.Troppo dolore.«Devi chiamare Gregorio.»La tosse nervosa riprende senza sosta, per un minuto buono ne sei sopraffatto. Io continuo a guardare fuori dalla finestra la neve che cade. È la mia macchina, questa volta, a restare sommersa da quel bianco silenzio.«Non c’è bisogno, sto bene da solo. Se non vuoi, non fa niente. Ma dovevo tentare.»«Ho detto che devi chiamare Gregorio.»«Perché?» Nella tua voce una nota confusa, la tosse che si ferma, la curiosità divorante per la mia insistenza.«Perché deve riportare Ofelia. Ai bambini piacciono i gatti.»

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