di Mauro Mirci
Ero curioso di scoprire come Antonio Bortoluzzi avrebbe affrontato questo cambio di binario narrativo rappresentato dal suo primo romanzo, diciamo così, destinato a un pubblico più ampio delle precedenti prove letterarie. Non commerciale, ché di commerciale “Come si fanno le cose” ha poco o nulla. Si tratta, è vero, di un romanzo dalla struttura narrativa abbastanza ortodossa, ed è accomunato ai primi tre libri di Antonio Bortoluzzi da una prosa pulita e lineare, limpida e frizzantella come deve essere l’aria delle Dolomiti Bellunesi dove vive e ambienta, per vocazione e amore della propria identità, le sue storie. Tuttavia, Bortoluzzi non indulge in cliché di genere e riesce a comporre una trama che miscela bene il nocciolo giallo della storia, l’ambientazione realistica, la divagazione sentimentale (divagazione che diventa, però, elemento importante del romanzo).
Ho letto tutte le storie edite di Antonio, e anche un paio di quelle inedite. Mi sono detto: “Ma come farà questo montanaro scrittore, operaio con talento di penna e calamaio, a tirarsi fuori dal mondo contadino e d’alta quota che occupa militarmente la sua scrittura e, suppongo, ogni angolo della sua anima?”. La risposta è stata immediata e banale. Semplicemente, non se ne è tirato fuori. “Come si fanno le cose” è diverso dalle opere precedenti di Bortoluzzi solo quanto un figlio è diverso dal genitore. Se in “Cronache della valle”, “Vita e morte della montagna” e “Paesi Alti” predomina la dimensione rievocativa, lo sguardo retrospettivo, la messa in scena del passato, “Come si fanno le cose” è dominato dal presente e dalla nostalgia. Cosa sono diventati coloro che prima abitavano la montagna? Che un tempo vivevano in simbiosi con un ambiente generoso e amabile, ma aspro e crudele allo stesso tempo, mentre adesso convivono con mutui, turni in fabbrica e lunghe trasferte in pullman? Bortoluzzi racconta una parte del nordest italiano, del mondo della attività produttive, della progressiva contaminazione culturale ed etnica. Insomma, coloro che vivevano in montagna sono scesi a valle, si sono impiegati nelle aziende e nelle fabbriche e conducono con fatica un’esistenza da esiliati che sognano di tornare all’Eden dal quale la necessità di buscarsi la pagnotta li ha scacciati. O almeno, è questa la chiave di lettura che più mi è piaciuta dare al romanzo di Antonio Bortoluzzi, che in copertina spiattella tutta trama del romanzo: due amici seduti a un tavolino, un rocchetto di filo per tessuti, una muta da sub, un pullman, un sacco pieno di soldi, una giovane cinese. E, sullo sfondo, il profilo seghettato dei monti che fanno da sfondo a tutta la vicenda.
Quello che la copertina non dice e l’immensa malinconia in sottofondo. I due protagonisti, Valentino e Massimo, sono due cinquantenni (e forse qualcosa di più), operai della Filati Dolomiti. Si son visti scivolare via dalle mani la giovinezza e le cose belle della vita. “E’ vero, Massimo”, dice Valentino in suo flusso di coscienza , “la fabbrica ci ha ucciso un po’ ogni giorno, ci ha prosciugato l’anima e il cuore in più di trent’anni di lavoro: un lungo e interminabile filo di cotone ci ha avvolti in un bozzolo che ciondola nel nulla e stritolati.” Mi pare che questa sia la frase che meglio esemplifica il senso di “Come si fanno le cose”. Massimo e Valentino sono due vinti che, però, grazie a un piano avventuroso, vogliono rifarsi di quei trent’anni di fabbrica avvilenti. Sono anche profondamente diversi, pure se legati dal sogno comune di ritornare alla vita libera sulla montagna acquistando un agriturismo. Sono le differenze tra i due che fanno da motore del romanzo. Valentino, in fin dei conti, più che una rivincita cerca un nuovo equilibrio, dopo che la moglie l’ha abbandonato, privandolo dei suoi punti di riferimento. E Massimo, disposto a tutto pur di ottenere il denaro per l’acquisto dell’agriturismo, forse non sa neppure lui cosa desidera. Una nuova opportunità, di certo, e forse rivivere la giovinezza, recuperare, in qualche modo, i trent’anni che la fabbrica gli ha rubato. Entrambi, Valentino e Massimo, esprimono la sofferenza di aver vissuto quei trent’anni, subiti per la necessità di portare a casa un salario, ma lontanissimi da ciò che hanno sempre desiderato essere e fare. Ecco, leggendolo, ho creduto che questo fosse l’intento di Giacomo Bortoluzzi: raccontare ciò che, nostro malgrado, siamo; spiegare ciò che, per nostra incapacità, non riusciamo a essere. Mi è parso un romanzo di silenzi, quest’ultimo di Bortoluzzi, e, per ciò, simile ai precedenti. Un romanzo di stanze deserte, e polvere che brilla nei fasci di luce solare; di rumori da tinello e cigolii di vecchi letti. Di scricchiolii del legno quando s’assesta. Di sussurri.