Pietrangelo Buttafuoco. Sono cose che passano

di Mauro Mirci

Vi è una fonte, a Leonforte, un lavatoio fatto costruire dal fondatore della cittadina, nel ‘600, dal principe Nicolò Placido Branciforti. La vulgata vuole che sia un omaggio del principe alla moglie fiamminga, per ricordarle il rumore delle acque del paese natale anche nell’arsura dell’entroterra siciliano.
Nel 1951, Nino Buttafuoco, avvocato leonfortese e figura storica della destra siciliana, viene eletto deputato dell’Assemblea Regionale Siciliana.
E, nello stesso periodo, la feroce banda Filippina viene sgominata dal tenace maresciallo dei carabinieri Sechi. E, sempre nello stesso periodo, nel porto di Milazzo sbarcano Lucy Thompson, amica personale di Ottavia, in arrivo dall’Inghilterra, ma anche Roberto Rossellini e Ingrid Bergman.
Siamo nel secondo dopoguerra, nel centro della Sicilia, nell’unica provincia isolana che non ha sbocco sul mare. Ma sarà commedia o tragedia questo ultimo romanzo di Pietrangelo Buttafuoco? E quanto di vero c’è nelle azioni attribuite ai personaggi realmente esistiti che interagiscono con quelli partoriti dalla mente di Pietrangelo Buttafuoco? Resta questo dubbio giunti alla pagina 349 di “Sono cose che passano”, edito dalla Nave di Teseo. Storia tutta siciliana. Per buona parte, almeno, salvo nel finale, quando la narrazione si sposta a Roma, dove il narratore lascia spazio e voce al deputato monarchico, medaglia d’argento al Valor Militare, Carlo Delcroix, al socialista Pietro Nenni e a una spiegazione conclusiva in forte odore d’insincerità, chiusa, assai poeticamente, con i versi: È questo il loro primo istante d’amore / Questo è il loro primo istante d’amore / Il loro primo istante d’amore è questo.
La storia è questa: Rodolfo Polizzi, barone (forse, ma forse no) è l’ultimo rampollo della sua casata. Il suo pingue padre, ormai defunto, ha lasciato comando e proprietà nelle mani di donna Tina, donnone fatto alla maniera di molte donnone cui tocca la gestione della roba in assenza di uomini, ovvero in presenza di eredi di poche capacità. Quale, appunto, Rodolfo è. Il giovanotto, infatti, ama la vita comoda e la condivide con la bella e sensualissima moglie, Ottavia, nata Beccadelli Beneventano, principessa di Bauci. Degradata a baronessa Polizzi per amore e trasferitasi lontano (lontanissimo!) da Palermo per stare a fianco del bel Rodolfo (perché Rodolfo è bello, e buon amante). A Leonforte, appunto, cittadina della provincia di Enna, rappresentazione esemplare della Trinacria più interna. La cittadina della Gran Fonte fatta costruire dal principe Nicolò, detta anche “dei 24 cannoli”, dal numero di gettatoi che versano acqua, ancora oggi orgoglio e attrazione turistica locale.
La povera Ottavia vive in quotidiana diatriba con la suocera, che ricalca il classico cliché della madre, possessiva e astiosa, di un figlio unico e inetto “rubato” dalla femmina estranea. I contrasti tra suocera e nuora raggiungono l’acme quando Ottavia convince Rodolfo a ordinare i lavori di ristrutturazione della casa di villeggiatura di campagna (la casa in contrada Russi). Ossia, tocca, in contemporanea, la roba e il portafoglio dei Polizzi.
Sembrerebbe che il romanzo debba scorrere lungo il percorso tracciato da una narrativa siciliana classica (la roba, l’albagia indolente delle casate nobiliari dell’isola, i circolini di paese, la pochezza della nobiltà rurale, l’esclusività e il cosmopolitismo di quella cittadina, la ferocia dei rapporti d’interesse) quando il povero Rodolfo inizia a stare male, molto male. Sembra questo il punto in cui la storia ha una svolta e diventa qualcosa di diverso e più avvincente. Torbida, la storia lo era già, per via di un certo passato, un po’ raccontato, un po’ intuito, di Lucy Thompson e di Ottavia Beccadelli Beneventano, principessa di Bauci. Che ha trascorso un periodo di studio in Inghilterra, dove, tra le altre cose, s’è dedicata, in qualità di schermidrice, al rito dello Schmiss, ossia segnare con la lama il viso di studenti desiderosi di mostrare un segno di virilità (era un rito di iniziazione alle conventicole studentesche dette Burchenschaften, nate in Germania ma diffuse anche a Londra). I principi di Bauci, poi, sono imparentati coi baroni (autentici ed esistiti) Piccolo di Calanovella: Casimiro, Lucio e Agata Giovanna, dediti (facendo una sommatoria di famiglia) a esoterismo, fotografia, occultismo, poesia, autoisolamento, botanica. I baroni Piccolo vivono a Capo D’Orlando, cittadina tirrenica dove operò quell’Aleister Crowley, esoterista inglese del quale scrisse Sciascia ne “Il mare colore del vino”.
Cos’altro? I principi di Bauci non vedono di buon occhio il genero, sulla cui nobiltà nutrono dubbi, mentre hanno certezze sulla sua inadeguatezza al ruolo di marito di Ottavia. Quello tra Ottavia e Rodolfo è stato un colpo di fulmine scoccato nell’aeroporto di Boccadifalco, a Palermo. Rodolfo stesso ha consapevolezza della propria ignoranza e della scarsa dimestichezza con gli usi e i modi della nobiltà antica (i Piccolo posseggono un titolo che risale ai Normanni) e autentica, ma non sa evitare le gaffes. Tanto che si trova (imperdonabile eppure perdonato) a nominare i Savoia alla tavola dei Piccolo, filoborbonici.
E sappiamo che Rodolfo, per colmare questa lacuna di inadeguatezza e frustrazione s’affida alla indulgenza della moglie innamorata. Ma sappiamo anche che Rodolfo sa di non potersi sempre spacciare per un conoscitore della vera vita. “Specialista del mondo e del suo uso, questo io sono”. La presenza di Lucy lo convince che un primo importante passo consista nell’imparare l’inglese. E si affida al professore Tubì. Riuscirà l’insegnante nell’impresa? Pare di no. Come in una sorta di gioco dell’oca, Rodolfo non riesce a scollarsi dalla casella di partenza. Eventi contrari gli impediscono di iniziare le lezioni, di seguire i lavori e di adeguarsi alla raffinatezza della classe sociale alla quale appartiene la moglie Ottavia, quella ristretta cerchia di famiglie, impenetrabile ed esclusiva, autoreferenziale e con la puzza sotto il naso, che ama trattare preferibilmente questioni “entre nous” e non gradisce contaminazioni con parvenu e borghesi.
Con grande attenzione al carattere dei personaggi, Buttafuoco passa gradualmente dalla commedia alla tragedia, e di più non è lecito dire per non rovinare il piacere delle lettura. Che piacevole è, infatti, e decorosamente avvincente. Spiace la piega che prende il finale, ma forse non è altro che assoluto realismo, e cioè che, in certi ambienti, la reputazione pesa più della verità. E che i demoni che ci portiamo dentro sono difficili da uccidere.

Pietrangelo Buttafuoco, “Sono cose che passano”, La nave di Teseo, ed., pp. 349, € 19,00

 

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